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RICHIESTE DEL GRUPPO DELL’ANFAA DI TORINO IN MERITO AGLI AFFIDI
E ALLE ADOZIONI
Questo è il resoconto dell’incontro avuto
il 28 febbraio 2006 dall’Anfaa a Torino con
la Presidente del Tribunale per i minorenni
Giulia De Marco e il giudice Cesare Castellani (che le subentra come reggente da metà
maggio). L’incontro era stato richiesto per
un confronto in merito all’affidamento familiare, con particolare riferimento alla durata,
alle conclusioni degli stessi affidamenti e ai
possibili rapporti degli affidatari col bambino
o ragazzo dopo l’affidamento e per considerare come gli affidatari possano essere
ascoltati dai giudici in tempi compatibili con
le questioni poste.
Ci siamo ancora confrontati all’interno
dell’Anfaa dopo l’incontro avuto il 28 febbraio
scorso con Lei e l’allora presidente Giulia
De Marco e abbiamo ritenuto opportuno
scriverLe per riprendere quanto emerso e
per esporre brevemente le nostre considerazioni e proposte in merito.
1. Per quanto riguarda l’affidamento familiare:
a) prendiamo atto, con favore, dell’impegno
da Voi assunto di sentire gli affidatari prima
di prendere nuovi provvedimenti sui minori
da loro accolti e sottolineiamo ancora la
necessità che gli stessi affidatari (su loro
richiesta scritta) vengano sentiti dal giudice
competente in tempi compatibili con l’urgenza e la gravità delle questioni prospettate,
nei casi in cui la loro valutazione della situazione del minore affidato sia divergente
rispetto a quella dei servizi socio-assistenziali
e sanitari (se tutto procede bene gli affidatari
non chiedono di parlare con il giudice…);
b) rinnoviamo la richiesta al Tribunale di
sollecitare la piena osservanza da parte dei
servizi competenti dell’articolo 4, comma 2,
della legge 184/1983, che prevede l’obbligo
da parte loro non solo di riferire senza indugio
al Tribunale per i minorenni ogni evento di
particolare rilevanza, ma anche di presentare
una relazione semestrale sull’andamento
dell’affidamento;
c) prendiamo atto dell’impegno assunto
dal Tribunale per i minorenni di indicare nel
provvedimento di affidamento che, a conclusione dello stesso, vengano individuate,
caso per caso, modalità di passaggio e di
mantenimento dei rapporti fra il minore e la
famiglia che lo ha accolto, sia quando rientra
nella sua famiglia d’origine, sia quando viene
inserito in un’altra famiglia affidataria o in
una comunità. Riteniamo infatti – anche in
base a recenti esperienze negative già segnalate al Tribunale e richiamate nel corso
dell’incontro – che vada salvaguardata la
continuità dei rapporti affettivi del minore e
che la gestione di questa delicata fase di
transizione della vita del minore (sia bambino
che adolescente) non debba essere lasciata
dal Tribunale alla discrezionalità dagli operatori dei servizi socio-assistenziali e sanitari;
d) per quanto riguarda la durata degli
affidamenti familiari, accogliamo con favore
la vostra precisazione che il Tribunale per
i minorenni – in relazione alle specifiche
situazioni dei minori – può disporre più proroghe. Rinnoviamo pertanto al riguardo la
richiesta che sia modificato il punto 5.3 della
circolare sottoscritta anche dalla Presidente
del Tribunale per i minorenni, riportata nel
volume La tutela giudiziaria dei minori in
Piemonte pubblicato dalla Regione Piemonte. Al punto 5.3 relativo alla durata degli
affidamenti, la stessa dà infatti una interpretazione alla legge vigente troppo rigida e
contraria agli interessi dei minori, che non
tiene conto delle situazioni esistenti. Afferma
infatti che “temporaneo è anche l’affidamento
familiare disposto dai servizi o dal Tribunale
per i minorenni. Esso non può superare la
durata di ventiquattro mesi e il provvedimento
amministrativo o giudiziario che lo dispone
deve indicare la durata e quindi il termine”
(articolo 4, comma 4° della legge n.
184/1983). Concordiamo, invece, anche in
base alle esperienze degli affidamenti che
abbiamo realizzato nel corso degli anni, con
quanto previsto nella delibera della Giunta
regionale “Approvazione linee d’indirizzo per
lo sviluppo di una rete di servizi che garantisca livelli adeguati di intervento in materia
di affidamenti familiari e di adozioni difficili
di minori, in attuazione della legge 149/2001
‘Diritto del minore ad una famiglia’ (modifica
legge 184/83)” della Regione Piemonte n.
79/11035 del 2003: “Nei confronti dei minori
che, per la gravità della situazione familiare,
non possono dopo due anni di affidamento
rientrare presso la famiglia di origine, e che
non sono però in situazione di abbandono,
perché privi di assistenza morale e materiale
da parte dei genitori o dei parenti tenuti aprovvedervi, l’intervento che deve comunque
essere privilegiato è l’affidamento familiare
che, come già detto, può avere una durata
anche superiore ai due anni quando è disposto dal Tribunale per i minorenni. La
nuova disciplina legislativa non pregiudica
la possibilità di disporre affidamenti anche
a lungo termine: fondamentale è il lavoro di
coordinamento, supporto e verifica periodica
del progetto di affidamento. Si ritiene necessario distinguere fra la prevedibile durata
dell’affidamento, che presuppone una valutazione tempestiva e realistica della situazione familiare e dei possibili sviluppi della
stessa, e la periodica revisione dell’andamento dell’affidamento da parte del Tribunale
stesso sulla base della relazione semestrale
del servizio sociale referente e dell’audizioneascolto degli stessi servizi sociali e sanitari
e degli affidatari, della famiglia di origine e
del minore, come previsto dalla normativa
citata. L’affidamento, pertanto, non cessa
automaticamente alla scadenza del termine
indicato nel provvedimento poiché la legge
richiede una apposita decisione al riguardo,
fondata sulla valutazione dell’interesse del
minore. Del resto, la durata dell’affidamento
prevista sin dall’inizio o nelle successive
proroghe è determinata sulla base di una
prognosi, cioè di una valutazione per il futuro,
circa il tempo occorrente per portare a termine utilmente il programma di assistenza
alla famiglia”. Abbiamo avuto modo purtroppo di constatare anche nel corso di recenti
incontri con famiglie affidatarie che questa
interpretazione del comma 4 dell’articolo 4
della legge n. 184/1983, è stata fatta propria
sovente anche dagli operatori dei servizi
socio-assistenziali e sanitari e rischia di
avere ripercussioni negative sugli affidamenti
in corso, creando illusioni ed aspettative da
parte dei genitori d’origine degli affidati sulla
data di conclusione dell’affidamento che non
hanno riscontro nella realtà e disorientano
gli affidatari stessi, che si chiedono come
possano essere risolti in due anni le problematiche tanto complesse delle famiglie d’origine dei minori da loro accolti (1). A nostro
parere, sostenere che gli affidamenti non
possono durare più di due anni condiziona
e, a maggior ragione, condizionerà in futuro,
l’azione informativa degli stessi operatori nei
confronti di quanti danno e daranno la loro
disponibilità all’affidamento. Infatti, a fronte
delle complessità di buona parte delle situazioni personali e familiari dei minori inseriti
da anni nelle strutture residenziali (cfr. la
positiva ricerca della Regione Piemonte
“Tutti i bambini hanno diritto a una famiglia”)
come si può sostenere che “l’affidamento
non può superare la durata di ventiquattro
mesi”? Se quei bambini non possono tornare
a casa e non sono adottabili, li rimandano
in comunità? Le nostre esperienze hanno
confermato che ci sono alcuni casi in cui i
genitori (o, più sovente, il genitore) non ce
la fanno ad occuparsi adeguatamente dei
figli, anche se i loro legami affettivi sono
importanti. A queste condizioni gli affidamenti
possono prolungarsi per anni, ma non devono essere confusi con le adozioni: sono
situazioni che vanno periodicamente verificate per valutare l’opportunità o meno di un
ritorno nella famiglia d’origine. Il mero criterio
temporale non può essere assunto come
parametro per decidere rientri dannosi per
i bambini;
e) a proposito di affidamenti a lungo termine, non riteniamo corretto e chiediamo quindi
che venga cancellato quanto scritto nella
circolare sopra citata pubblicata nel volume
La tutela giudiziaria dei minori in Piemonte,
al punto 12.3, ultimo paragrafo, che riportiamo: “Ci sono degli affidamenti familiari che
in concreto diventano stabili con il trascorrere
del tempo. Quando il bambino si è radicato
in una nuova famiglia, senza possibilità di
ritorno in quella di origine, i servizi dovrebbero
fare presente agli affidatari la possibilità di
richiedere un’adozione in casi particolari a
mente dell’articolo 44, lettera d), della legge
4 maggio 1983 n. 184”. Al riguardo vorremmo
nuovamente precisare che l’Anfaa concorda
sull’applicazione della terza e quarta ipotesi
prevista dall’articolo 44 della legge 184/1983
e successive modifiche, come soluzione
“residuale” nei casi in cui, dichiarata l’adottabilità di un minore, non si riescano a trovare
coniugi, in possesso dei requisiti previsti per
l’adozione legittimante, disposti ad adottarlo.
Ma quando un minore è dichiarato adottabile,
in quanto privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti
tenuti a provvedervi, è l’adozione legittimante
che deve essere disposta, nell’interesse del
15
NOTIZIARIO DALLA SEDE NAZIONALE

(1) Ricordiamo anche che la ricerca nazionale condotta dal
Centro nazionale di documentazione per l’infanzia e l’adolescenza
di Firenze sugli affidamenti censiti al 31 dicembre1998 ha evidenziato che il 32,8% degli affidi era in corso da più di due anni e
che il 42% degli affidamenti si sono conclusi con il rientro del
minore nella famiglia d’origine.✉
NOTIZIARIO DALLA SEDE NAZIONALE
minore e della stessa famiglia adottiva.
Sarebbe contrario all’interesse del minore
utilizzare l’adozione “nei casi particolari” al
posto di quella legittimante quando è in stato
di adottabilità, in quanto priva l’adottato dello
status di figlio legittimo con tutte le conseguenze, non solo giuridiche, che questo
comporta. Proporre l’adozione “nei casi
particolari” come soluzione per regolarizzare
gli affidi a lungo termine è soluzione inaccettabile e fuorviante: se il minore non si
trova in stato di adottabilità non è corretto
ricorrere ad adozioni più o meno “miti”, anche
nei casi di affidamento a lungo termine.
Questo, anche e soprattutto, per tutelare i
diritti della famiglia d’origine, che non deve
essere espropriata del suo ruolo genitoriale,
anche se per svolgerlo adeguatamente deve
contare sull’aiuto di un’altra famiglia, oltre
che dei servizi sociali. Inoltre, riteniamo che
tale provvedimento potrebbe fortemente
incrinare e comunque condizionare i rapporti
tra le due famiglie con una ricaduta negativa
anche sul minore;
f) rinnoviamo le preoccupazioni espresse
nel corso dell’incontro sullo scarso sviluppo
dell’affidamento e sulla necessità di impegnarsi tutti – nell’ambito delle proprie competenze – per il suo rilancio, sollecitando
anche gli Enti gestori a concretizzare quanto
disposto dalla legge regionale n. 1/2004
“Norme per la realizzazione del sistema
regionale integrato di interventi e servizi
sociali e riordino della legislazione di
riferimento” che prevede:
• il diritto dei soggetti alle prestazioni e
servizi da parte degli Enti gestori di cui all’art.
22, comma 3;
• la obbligatorietà della gestione in forma
associata degli interventi da parte degli Enti
gestori (art. 9, comma 5);
• la obbligatorietà dell’istituzione, prevista
dall’art. 18, nell’ambito delle prestazioni
essenziali, dei servizi di assistenza economica e domiciliare, dei servizi per l’affidamento e l’adozione.
Precisiamo inoltre che la sopra citata delibera della Giunta regionale n. 79/11035
“Approvazione linee di indirizzo per lo
sviluppo di una rete di servizi che garantisca livelli adeguati di intervento in materia di affidamenti familiari e di adozioni
difficili di minori, in attuazione della legge
149/2001 ‘Diritto del minore ad una famiglia’ (modifica legge n. 184/83)” è precedente alla suddetta legge 1/2004.
Al riguardo l’Anfaa ha richiesto all’assessore al Welfare della Regione Piemonte un
quadro aggiornato dei provvedimenti (delibere, ecc.) assunti dagli Enti gestori per
recepire (e rendere operanti) le disposizioni
suddette.
2. Venendo ora all’adozione, cui si è fatto
cenno nello stesso incontro, concordiamo
anche noi sulla necessità di una riflessione
approfondita, che veda coinvolta anche la
Procura per i minorenni, sui presupposti
giuridici dello stato di adottabilità dei minori,
anche per riportare l’attenzione di tutti, compresi gli operatori dei servizi, sulla necessità
di segnalare tempestivamente le situazioni
dei minori, tenuto anche conto della futura
entrata in vigore del “giusto” processo e del
nuovo procedimento di adottabilità al 1°
luglio 2006. I tempi dei procedimenti sono
attualmente molto lunghi e rischiano di danneggiare i bambini coinvolti: è inaccettabile
che la valutazione delle competenze genitoriali dei genitori di un minore si protragga
per anni, costringendolo, nel frattempo, a
restare in comunità. È necessario un maggior
raccordo fra magistratura minorile e servizi
sociali interessati.
Proponiamo su questi punti un confronto
ulteriore, secondo modalità da concordare.
Per quanto riguarda le adozioni “difficili”,
rinnoviamo la richiesta che il Tribunale per
i minorenni:
1) precisi nei provvedimenti relativi all’adozione dei minori italiani e stranieri ultradodicenni o con handicap accertato che agli
adottanti sono estese le provvidenze previste
dall’articolo 6, comma 8 della legge n.
184/1983 e dalle leggi e delibere della Regione Piemonte in merito;
2) indichi i servizi incaricati di supportare
il nucleo adottivo (analogamente a quanto
previsto per l’affidamento dalla legge n.
184/1983), i quali devono riferire in merito,
con scadenza da definire, al Tribunale per
i minorenni, che sentirà anche i genitori
adottivi e, in relazione all’età, il minore.
Rinnoviamo inoltre la richiesta che vengano
segnalate all’Anfaa dal Tribunale per i minorenni le situazioni dei minori dichiarati adottabili, per i quali non è ancora stato possibile
realizzare un inserimento in famiglia: segnaliamo nuovamente la disponibilità dell’Anfaa
a collaborare, organizzando iniziative specifiche in merito.
16PRESA DI POSIZIONE A FAVORE
DELL’AFFIDO DEI BIMBI PICCOLISSIMI
Il 10 aprile 2006 si è riunito a Pistoia Ubi
Minor, il coordinamento toscano delle associazioni, cui aderiscono anche le Sezioni
locali dell’Anfaa, che promuovono l’affidamento familiare, l’adozione e, più in generale,
tutte le iniziative possibili a sostegno dei
minori in difficoltà. All’ordine del giorno è
stata posta la discussione sull’affidamento
di bambini molto piccoli, urgentemente sollecitata dalla notizia del bimbo nato cinque
mesi fa in Versilia, rimasto in ospedale
nonostante la disponibilità ad accoglierlo
temporaneamente offerta da varie famiglie
che già collaborano a progetti per neonati
in altre Regioni d’Italia. Tutti gli appelli sono
stati ignorati e il bimbo è stato recentemente
avviato all’Istituto degli Innocenti.
La legge 149/2001 sostiene al titolo 1 il
“diritto del minore alla propria famiglia” e, al
titolo 2, afferma che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo,
nonostante gli interventi di sostegno e di
aiuto… è affidato ad una famiglia… Ove
non sia possibile tale affidamento, é consentito l’inserimento del minore in una comunità
di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto
di assistenza pubblico o privato…”.
Ubi Minor chiede con forza a tutte le istituzioni preposte se in questo caso la legge
sia stata applicata.
Nel corso della discussione sono state
inoltre espresse gravi perplessità sulle affermazioni diffuse circa la pericolosità dell’affidamento di bambini molto piccoli. Sulla
questione il coordinamento si attiverà affinché la discussione sia ampia, documentata
e veda il confronto con diverse realtà italiane
nelle quali l’esperienza pluriennale conferma
che questo è invece possibile e doveroso
ed ha risultati positivi documentati.
LA TRASMISSIONE AMORE:
UN SUCCESSO PER CHI?
È NEGATIVO E SVILENTE
DEFINIRE ADOZIONI I PROGETTI
DI SOLIDARIETÀ A DISTANZA
Grande risalto ha avuto la trasmissione
Amore condotta da Raffaella Carrà (andata
in onda il sabato sera per nove puntate dal
25 marzo al 20 maggio 2006 su Rai 1 alle
21) realizzata con la collaborazione del
Segretariato sociale Rai, che ha selezionato
le quindici organizzazioni aderenti (1).
Scopo della trasmissione era quello di
promuovere le “adozioni” a distanza (termine
sbagliato e fuorviante che solo in poche
occasioni è stato sostituito dalla conduttrice
con il termine corretto di “sostegno” a distanza); anche attraverso il coinvolgimento di
cantanti, attori, ecc. veniva sollecitata l’adesione dei telespettatori a favore dei progetti
predisposti dalle organizzazioni aderenti,
che avrebbero provveduto “a richiamare tutti
e a filtrare ogni rapporto tra i bambini da
sostenere e “madrine” e “padrini” lontani,
per evitare confusioni di ruoli, equivoci ed
eventuali sfruttamenti” (v. il sito
www.amore.rai.it).
Dopo la prima puntata erano già 23 mila
le telefonate ricevute, anche se Benedetta
Verrini nell’articolo “23 mila promesse
d’amore” su Vita del 7 aprile 2006 precisava:
“Il condizionale è d’obbligo perché, se è vero
che la quota di 300 euro all’anno moltiplicata
per 23 mila fa quasi 7 milioni di euro (!), è
anche vero che tutte le promesse di donazione realizzate con il mezzo televisivo hanno
una percentuale di “mortalità” dal 30 al 60%,
dovuta a ripensamenti, errori, incomprensioni
e, sì, in qualche caso anche alla tentazione
di parlare con gli ospiti, se a rispondere al
telefono ci sono grandi big come la Cucinotta
o Falcao”. Dopo otto puntate, le telefonate
pervenute sono state oltre 130 mila (v. il sito
www.amore.rai.it).
Sarebbe importante sapere quanti sono
stati i progetti effettivamente avviati.
Purtroppo la dizione “adozione a distanza”
per indicare i progetti presentati non è stata
utilizzata solo dalla Carrà, ma anche da
parte dei mezzi di comunicazione. Come ha
precisato l’Anfaa nella lettera inviata al Segretariato sociale Rai il 17 marzo 2006 “è
scorretto utilizzare la denominazione
“adozione a distanza” per indicare questa
iniziative. Infatti, l’adozione è l’atto sociale
e giuridico in base al quale i bambini diventano figli a tutti gli effetti di genitori che non
li hanno procreati, e parallelamente, i genitori
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NOTIZIARIO DALLA SEDE NAZIONALE

(1) Sono le seguenti: Aibi (Associazione amici dei bambini),
Aiutare i bambini, Albero della vita, Avsi (Associazione volontari
per il servizio internazionale), Action Aid, Ciai (Centro italiano aiuti
all’infanzia), Comunità Sant’Egidio, Coopi (Cooperazione internazionale insieme per lo sviluppo dei popoli), Ecpat (End Child
Prostitution, Pornography and Trafficking), Famiglie nuove, Italia
solidale, Nuovi orizzonti, Save the Children, Sos Italia, Terres des
hommes.✉
NOTIZIARIO DALLA SEDE NAZIONALE
diventano padre e madre di un figlio non
nato da loro (…). Con l’adozione, pertanto,
i genitori diventano gli unici e veri genitori
di bambini procreati da altri. Ciò premesso,
se si considera il rapporto di adozione come
un vero e proprio rapporto di filiazione, ne
deriva l’esigenza che, per indicare iniziative
di aiuto e sostegno, non dovrebbe essere
utilizzata la denominazione “adozione a
distanza”, in quanto – usata in questo contesto – comporta connotazioni riduttive per
l’adozione. Non si possono inoltre non denunciare gli effetti deleteri che le varie
“adozioni” fasulle propagandate da giornali,
radio e televisioni (adotta un nonno, adotta
un papà, adotta un cane, adotta una strada,
adotta un monumento…) hanno su una
corretta concezione dell’adozione”.
Secondo l’Anfaa “per indicare l’aiuto disinteressato che persone o gruppi mettono in
atto nei confronti di coloro che versano in
situazione di estrema indigenza, riteniamo
più appropriato un termine quale “solidarietà”
o “sostegno” a distanza, termini che mettono
in risalto gli aspetti positivi di queste forme
di aiuto, senza sminuire il valore dell’adozione”. È questa la denominazione
utilizzata da diverse organizzazioni che
realizzano queste iniziative, quali il coordinamento La Gabbianella, cui aderiscono 45
associazioni, che operano in 80 Paesi del
mondo; nella lettera inviata il 17 marzo 2006
a Raffaella Carrà, Vincenzo Curatola, presidente del suddetto Coordinamento, ha sottolineato come “la definizione di “sostegno
a distanza” sia più corretta rispetto a quella
di “adozione a distanza”, nonché più aderente a ciò che fa il cittadino quando assume
l’impegno di “sostenere” per un certo periodo
di tempo una persona in difficoltà”.
A sua volta il missionario Giulio Albanese
su Vita del 5 maggio 2006 nell’articolo
“Mescolare sacro e profano senza
informazione” ha sostenuto che “la solidarietà, in effetti, deve essere sempre e comunque preceduta da un sano discernimento, per evitare che si traduca nelle carità
pelosa del ricco epulone il quale guardava
dall’alto delle sua mensa imbandita il povero
Lazzaro” ed ha aggiunto: “Sono anni che
nel mondo della cooperazione internazionale
si insiste sull’esigenza di coniugare le azioni
solidali all’informazione, proprio per evi-tare
il solito approccio paternalistico che spinge
l’offerente a metter mano al portafoglio per
evitare ulteriori crisi di coscienza. Per carità,
la solidarietà, considerata come valore fondante della fraternità universale, non è riducibile a un patrimonio di conoscenze riservate
a una ristretta cerchia di mandarini”. A proposito della trasmissione Amore, Giulio Albanese ha poi precisato: “Non credo sia da
escludere a priori il contributo della tv generalista per scopi solidali. Ma il programma
della Carrà, sebbene soddisfi le istanze
dell’opinione di massa, fa fatica a coniugare
il sentimento alla conoscenza, omettendo
più o meno volutamente le ragioni dell’immiserimento di tante periferie del mondo, dove
si consumano quotidianamente drammi
indicibili”.
Quali devono essere le finalità
del sostegno a distanza?
Nella lettera al Segretariato Sociale Rai
già citata, l’Anfaa ha sostenuto che queste
forme di solidarietà “non dovrebbero prescindere dal riconoscimento che diritto fondamentale di ogni bambino è quello di crescere
in una famiglia. Questo diritto inalienabile
nasce dal fatto che è universalmente riconosciuto che ogni bambino, per poter raggiungere uno sviluppo psico-fisico equilibrato,
ha bisogno di cure personali e continue che
solo in un ambiente familiare può ricevere”.
La consapevolezza di questa realtà deve
far riflettere sulle iniziative che si intendono
intraprendere per aiutare questi bambini,
promovendo azioni dirette a favorire nel loro
Paese, per quanto possibile, la permanenza
anzitutto nella famiglia d’origine e, quando
non è possibile, secondo le situazioni, in
una affidataria o adottiva.
No alla costruzione di nuovi istituti
La drammaticità e l’emergenza di certe
situazioni, l’enorme entità del bisogno di
certi Paesi del terzo mondo, non possono
giustificare la scelta di investire disponibilità
economiche ed energie umane nella costruzione e nel finanziamento di istituti di ricovero,
come più volte evidenziato anche da Prospettive assistenziali (2).
Nonostante siano note da oltre cinquant’an-
18
(2) Si vedano i seguenti articoli apparsi su Prospettive assistenziali: “Perché si costruiscono all’estero istituti di ricovero per
bambini?”, n. 115, 1996; “No all’orfanotrofio che l’Antoniano vuole
costruire in Bolivia”, n. 120, 1997; “Basta con gli istituti per i
bambini del Terzo Mondo: una lettera delle missioni Don Bosco
e la nostra replica”, n. 125, 1999; “Perché la Caritas antonianacostruisce in Kenia un istituto per bambini?”, n. 138, 2002; “Perché
la Caritas antoniana vuole costruire a Bagdad un orfanotrofio?”,
n. 148, 2004; “Perché costruire nei Paesi poveri istituti per i
bambini in difficoltà quando esistono valide alternative?”, n. 151,
2005
NOTIZIARIO DALLA SEDE NAZIONALE

ni le conseguenze negative dell’istituzionalizzazione sui minori (e non a caso la legge
n. 149/2001, con cui è stata modificata la
legge n. 184/1983, ha previsto il superamento del ricovero in istituto entro il 31 dicembre
di quest’anno) ancora oggi alcune organizzazioni continuano a sponsorizzare progetti
diretti alla creazione di nuovi istituti (v. ad
esempio il sostegno in Brasile ad un asilo
che ospita 300 bambini “alcuni a tempo
pieno perché ospiti” da parte dell’onlus For
a smile (cfr. La Stampa del 5 agosto 2006);
la creazione di una casa di accoglienza per
quaranta bambini di strada a Nairobi promossa dalla onlus A mani con la collaborazione della Fondazione e della Banca Mediolanum (cfr. Affari e Finanza del 21
novembre 2005); la realizzazione di una
struttura per 70 bambini disabili Hogar de
Dios in Bolivia a cura dell’onlus Nadia (in
Adozioneminori, n. 1-2006).
La scelta emotiva, che mette in moto energie generose, deve essere accompagnata
da una valutazione oggettiva della realtà
per offrire ai bambini, compresi quelli malati
e handicappati, risposte che tengano conto
del loro diritto a crescere in una famiglia.
Un allarmante rilancio dei villaggi Sos
Va purtroppo segnalato che una delle
quindici organizzazioni che hanno collaborato alla realizzazione di Amore è l’associazione Villaggi Sos. Va subito precisato che
questi villaggi sono degli istituti. Moderni,
ben organizzati, ma sempre e solo istituti.
Sono costituiti da una decina di casette in
ognuna delle quali 7-8 bambini sono seguiti
dalla cosiddetta “mamma Sos”, mentre il
direttore del villaggio dovrebbe assumere il
ruolo di “padre” per tutti i minori presenti nel
villaggio. In effetti si tratta di persone che
non svolgono alcun ruolo veramente materno
o paterno: sono dipendenti stipendiati che,
in quanto tali possono, fra l’altro, anche
cessare la loro attività da un momento all’altro. L’iniziativa dei villaggi Sos è stata avviata
da Herman Gmeiner nel 1949 sull’esempio
di istituzioni similari sorte nel 1850 a Eefde
(Olanda) e nel 1890 a Freeville (Usa) e
certamente in quegli anni erano attività di
avanguardia. Però, come spesso avviene,
sia il fondatore che i suoi seguaci non hanno
saputo aggiornarsi, ad esempio creando
piccole comunità, inserite nelle comuni case
di abitazione.
Fin dagli anni sessanta, critiche dettagliate
e documentate sui villaggi Sos sono state
fatte dall’Union internationale de protection
de l’enfance di Ginevra, organismo con voto
consultivo presso le Nazioni unite.
In particolare nel n. 107 maggio-giugno
1964 di Informations, rivista della suddetta
organizzazione, il segretario generale Mulock
Houwer, affermava: “Ciò che mi colpisce
nella lettura delle pubblicazioni dei villaggi
Sos è il modo di scrivere e cioè una propaganda che idealizza Gmeiner e che non fa
mai riferimento al problemi reali dei villaggi:
viene infatti ripetuto soprattutto che tutto va
benissimo, che queste istituzioni sono la
formula più economica e migliore delle altre.
Tutto ciò è favorito da immagini meravigliose
piene di sole e di cielo blu. È certamente un
eccellente materiale per convincere l’uomo
della strada che tutto ciò è il risultato della
sua quota di poche lire versata ogni mese
ai villaggi Sos. In realtà coloro che lavorano
in istituzioni per minori sono confrontati con
problemi che li portano a una critica personale costruttiva, ma ciò non esiste nelle
pubblicazioni Sos. In effetti queste pubblicazioni non fanno mai alcun accenno alla lotta
che molte persone conducono nel campo
delle istituzioni per migliorare la politica ed
i programmi (…). In conclusione i villaggi
Sos comprovano le carenze esistenti nella
protezione dell’infanzia, carenze di cui siamo
coscienti e, anche se esse (fatto che può
essere un aspetto positivo), i villaggi Sos
non rappresentano una soluzione. Essi non
apportano certamente nulla di rivoluzionario
e non hanno pertanto innovato per niente
nel campo della protezione dell’infanzia”.
Più avanti l’Autore (3) pone in rilievo la
discutibile funzione dell’iniziativa di Gmeiner
affermando: “I villaggi Sos rappresentano
una sfida su una più vasta scala. Infatti essi
attaccano l’affidamento familiare il cui valore
è considerato incerto”.
Consultando il sito dei villaggi Sos
(www.villaggisos.it) è possibile constatare
come la situazione non sia assolutamente
19
(3) Mulock Houwer, “Les villages d’enfants: une innovation dans
le domaine de la protection de l’enfance?’’, Informations, n. 107,
maggio-giugno 1964.cambiata. Nella pagina “Aiutiamo i bambini:
il modello Sos” ad esempio è affermato
quanto segue: “Cuore del nostro impegno
sono i bambini che hanno perso i genitori
o che non sono in grado di vivere con loro
stabilmente in una casa”. Perché allora non
viene mai fatto nessun riferimento alle iniziative di prevenzione del disagio, agli studi
psico-sociali dei nuclei familiari d’origine,
all’adozione e all’affidamento a scopo educativo? Proprio i villaggi Sos che sostengono
di essere un’organizzazione “impegnata a
difendere i diritti dei bambini e a soddisfare
i loro bisogni” negano, nei fatti, il loro diritto
ad una famiglia, anzitutto la loro d’origine
e, quando questo non è possibile, in una
affidataria o adottiva, secondo quanto previsto dalla legge 184/1983.
La mistificazione è ulteriormente accentuata dallo slogan “Adotta a distanza un
bambino accolto in un villaggio Sos, lo farai
vivere in famiglia!” contenuta nella pagina
succitata del loro sito.
Non solo i villaggi Sos sono stati inseriti
nella rosa delle associazioni che hanno
supportato la trasmissione Amore, ma è
stata lanciata a loro favore la campagna
umanitaria ufficiale dei Mondiali di calcio,
appena conclusi in Germania, promossa
dalla Fifa (Fédération internationale de football association), con l’obiettivo di raccogliere
fondi per costruire sei nuovi villaggi e ospitare
mille bambini orfani o abbandonati in Brasile,
Vietnam, Ucraina, Nigeria, Messico e Sudafrica. “I fondi raccolti in Italia saranno destinati
alla costruzione del villaggio Sos di Recife,
in Brasile, terra di grandi calciatori ma anche
di grande povertà, dove i bambini abbandonati sono circa otto milioni. La struttura, che
sarà terminata nel dicembre 2006, accoglierà
130 bambini in 14 famiglie, mentre un centro
sociale assisterà i giovani delle favelas
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STARE BENE INSIEME A SCUOLA SI PUÒ?
di Emilia De Rienzo
Postfazione di Andrea Canevaro
Collana “Persona e società: i diritti da conquistare”
UTET Università, Torino, 2006, pag. 166, euro 15,00
Il volume è in vendita presso l’Associazione Promozione Sociale, Via Artisti 36, 10124 Torino, tel. 011.812.44.69,
fax 011.812.25.95. – Versare l’importo sul c.c.p. n. 25454109 intestato a Associazione Promozione Sociale –
Le spese postali sono a carico dell’APS

NOTIZIARIO DALLA SEDE NAZIONALE
circostanti. “6 villaggi per il 2006” è la campagna umanitaria più importante mai lanciata
dal mondo del calcio. L’obiettivo, infatti, è di
raccogliere 20 milioni di euro in tutto il mondo
per coprire sia i costi di costruzione che di
gestione dei villaggi per i prossimi cinque
anni”, afferma Anna Bonaldi, responsabile
dell’ufficio promozione e comunicazione dei
villaggi Sos Italia nell’articolo di Paolo Manzo
“Mondiali: goal per i villaggi Sos” apparso
su Vita del 31 marzo 2006. Nello stesso
articolo viene riferito che, secondo il presidente della Fifa, Joseph Blatter “il programma
di cooperazione stabilito fra noi e i villaggi
Sos è una chiara dimostrazione della responsabilità sociale che il gioco del calcio riveste
nel mondo”.
Dobbiamo a questo punto chiederci perché
i villaggi Sos hanno ancora tanto successo:
probabilmente continuano a valere le considerazioni espresse da Maria Grazia Breda
nel 1985, nella recensione al libro di H.
Gmeiner “Impressioni, riflessioni, confessioni”, pubblicata sul numero 72 di Prospettive assistenziali: “I villaggi Sos rispondono
innanzitutto alla logica del perbenismo di chi
si sente appagato con un semplice contributo
in soldi, che non richiede impegno in prima
persona, ma una delega ad altri. Non a caso
si punta sulla pietà tanto della gente comune,
che dei grandi signori o addirittura delle
principesse! Inoltre per i governi locali, è
molto più facile realizzare un villaggio Sos,
piuttosto che promuovere la costruzione di
case, asili, scuole… o altre forme di intervento necessarie per proteggere l’infanzia.
I villaggi Sos non hanno apportato alcun
aggiornamento alla loro azione e perciò essi
rappresentano oggi un freno per chi si batte
nel campo delle istituzioni per migliorarne
la politica e i programmi ed un danno enorme
per bambini orfani”.

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