di Pino Roveredo
Pino Roveredo è uno scrittore triestino che ha vinto l’ultimo premio CAMPIELLO con il libro “Mandami a dire”, raccolta di racconti
Noi l’abbiamo conosciuto nel 1996 attraverso la sezione ANFAA di Trieste ,che ha segnalato a tutti noi “Capriole in salita” pubblicato con l’introduzione di Claudio Magris, che è la biografia della sua vita difficile e sofferta :particolarmente commoventi sono le pagine in cui lui racconta gli anni trascorsi,da bambino, in istituto…
Quando la sezione dell’Anfaa di Trieste gli ha chiesto un contributo di tipo letterario, si è lasciato coinvolgere con una disponibilità che è stata una grande e piacevole sorpresa. Questo è il racconto, che ha scritto,da cui emergono una sensibilità ed un’attenzione particolari nei confronti dei bambini, di cui noi ci occupiamo.
Buongiorno al giorno. Un’altra notte è passata e per il piccolo Marino si è trattato di un altro riposo scuro da mettere in conto alla delusione. Come sempre, prima di addormentarsi, si era raccomandato un sogno di castelli, battaglie e cavalli: poi ha chiuso gli occhi e ha atteso, ma dall’altra parte non è successo niente. D’altronde, si sa, prima di ordinarsi un sogno bisogna avere la pazienza serena del giorno. Figurarsi, proprio Marino, che il giorno lo maltratta col dispiacere del singhiozzo.
Accanto al piccolo letto c’è il riposo grande dei genitori: loro stanno dormendo ancora. Anche stanotte, come da tante notti a questa parte, la madre sarà rincasata tardi e poi – vuoi la distrazione, per la stanchezza o per l’abitudine – si sarà scordata di dargli il bacio della buonanotte. Lui, puntuale, ogni mattina, se lo cerca addosso e non lo trova mai.
Rammento che una volta Marino, uscendo da uno dei suoi soliti silenzi, mi imbarazzò chiedendomi: “possibile che sia così difficile un bacio della buonanotte? Con tutti quelli che girano il mondo e che spesso sono una consuetudine da non venir ricordata – dico – è possibile che non ce ne sia uno, anche il più distratto o il meno apprezzato, che si accorga della mia voglia? Giuro che io lo riceverei, ricorderei, amerei e non lo laverei più dal viso…”.
Tra poco si sveglierà anche la madre, che aprirà una fessura nello sguardo gonfio e, senza disbrigo del “buongiorno”, guarderà il figlio e si lamenterà: “È già ora?”. Poi si alzerà e, mentre il bambino si vestirà con gli stessi abiti delle ultime due settimane, si trascinerà in cucina e gli brucerà una scodella di latte; quindi, senza neanche guardarlo si ributterà nel letto per riempire la voglia di dormire.
Marino, senza l’educazione del saluto perché non ci sarà niente da salutare, uscirà con una borsa troppo grande per i suoi otto anni e, attraversando le vie del traffico e incrociando i coetanei accompagnati dai genitori, andrà a disbrigare l’obbligo della scuola. Quando tornerà troverà il genitore nella stessa ed esatta posizione risposta di cinque ore prima.
Accanto alla madre ci sarà anche il padre: almeno è così da due anni, dopo che il primo è scappato, sparito senza lasciare la traccia di un rimpianto. Però con lo scambio di paternità non è cambiato niente, se è vero che i due uomini si sono tramandati l’abitudine di parlare e ragionare con le mani. Mani pesanti da dedicare soprattutto alla madre, specie quando rientra e presenta la delusione degli incassi.
Anche stanotte i due genitori hanno conversato a lungo, tanto che il rumore dei colpi è riuscito a spezzare l’attesa fantastica di Marino che, abituato a quei risvegli, ha continuato a fingere un sonno bugiardo. Ha serrato ancora più forte gli occhi, stretto i pugni, e sperato che la stanchezza esaurisse in fretta il dialogo. A un certo punto si è pure scoperto un po’, sperando che qualche attenzione si precipitasse a rimboccagli le coperte: gesto che, come il sogno del castello, è stato sospirato un’infinità di volte, però mai goduto; niente, neanche sfiorato … Già, il rimbocco delle coperte; pura utopia, come il tempo per il gioco, il piacere di un abbraccio, la voglia di un bacio, il bisogno di una carezza del genitore.
Ma chi, chi, può riempirgli quella giustizia se la madre, sempre più persa nel vortice di una vita disgraziata, le carezze le ha sempre ricevute col risvolto di uno schiaffo. Il padre? Si, ma quale, quello di prima? Quello di adesso? Quello che dovrà venire? Uomini tutti uguali, con le stesse facce e le stesse mani, incapaci di fingere un sorriso o recitare un affetto.
Un giorno, dentro una pausa tranquilla, mentre Marino si perdeva dentro le immagini di un libro di animali, lo sentii dire: “Ma se le scimmie si abbracciano, e persino le iene ridono, come mai i miei genitori no?” Domande, domande e ancora domande; quante ne faceva quel bambino: tutte quelle che avevano l’urgenza di recuperarsi un tempo perduto; aveva la curiosità capace di mettere in difficoltà tutta la pazienza delle risposte. Sì, la mia pazienza e le mie risposte, perché anch’io sono stato uno dei suoi tanti padri, un padre istituzionale, se così si può dire.
Io e mia moglie l’avevamo letto su un articolo di giornale, articolo che spiegava di un’Associazione per le famiglie affidatarie; ricordo che, per la coincidenza delle coscienze, senza pensarci su un minuto, ci siamo informati e, dopo aver percorso e atteso la burocrazia del caso, una mattina abbiamo aperto la porta all’arrivo del piccolo Marino: un ragazzino di sette anni con dei meravigliosi riccioli neri messi sopra una minuscola figura. Era così esile e leggero da farmi temere che anche un piccolo soffio di vento se lo poteva portare via.
Nonostante le nostre feste e quelle dei nostri figli, il primo giorno non aprì bocca: anzi si accovacciò in un angolo con la testa tra le ginocchia, sembrò che volesse spegnere la luce tra lui e la nostra gioia. Solo all’ora di cena, sollecitato dall’odore dell’arrosto, si sollevò dal suo nascondiglio e si accomodò con noi; lì per la prima volta lo vedemmo sorridere con i suoi stupendi occhietti neri. Mi confessò il giorno dopo che la gioia non gli venne dalle abbondanti portate alimentari, torta compresa, bensì dall’emozione di trovarsi per la prima volta dentro una cena in compagnia, dove si poteva mangiare, gustare, apprezzare e – quel che era più incredibile – persino parlare.
Dopo quella sera e quel sorriso l’iniziale timidezza puntò velocemente sulla confidenza. La vergogna di spogliarsi si buttò nella vasca da bagno con gli altri bambini; i disegni solitari in cameretta diventarono l’esposizione orgogliosa per tutta la famiglia; la pipì a letto si fermò con il bacio della buonanotte. Poi c’era quel difetto di parola, che con una balbuzie lo faceva saltare sulle frasi; lentamente quell’intralcio si trasformò nella sicurezza che volava di sillaba in sillaba.
La nostra famiglia si allungò in affetto. Affetto per una manina che si aggrappava alla mia mano, o a quella di mia moglie, quando si accompagnava Marino a scuola e lui, orgoglioso, vantava la compagnia ai coetanei. Affetto sereno sui chilometri di gite e affetto premuroso per le cadute in bicicletta; affetto meraviglioso dell’abbraccio, ma non quelli che si danno per educazione o piccola partecipazione, ma quelli che si stringono fino a sentire la scossa per la gioia del contatto.
Il nostro piccolo Marino: un passaggio veloce nel cuore e poi, poi per la fuga improvvisa di una grande dispiacere. Rammarico che bussò una mattina alla nostra porta; vantando l’autorità di un tribunale decise che, con il presupposto di una decenza di vivere, il piccolo poteva tornare a casa di sua madre. Fu un momento terribile. Mia moglie e i due figli sparirono dalla visione per non sopportare il tormento; così toccò a me rivestirlo e tentare di smuoverlo dal rifiuto che non voleva consegnarsi a quella decisione. A portarlo via pensarono le due addette al ritiro. Marino si mise a scalciare e a guardarmi con occhi meravigliati, come ad interrogarmi: “Ma come, non avevi detto di volermi bene?” solo quando lo trascinarono oltre la soglia si calmò, e si rassegnò alla sconfitta; e mentre le signore lo accompagnavano via, lo vidi diventare esile e leggero come il giorno dell’entrata. Agitando stupidamente la mano lo salutai; lui senza voltarsi e ricascando nel difetto di parola pronunciò la prima sillaba e poi… poi saltò nel silenzio.
Appena chiusa la porta, dentro una grande solitudine, mi lasciai scappare la rabbia: “Ma come? Io, noi, che non siamo stati i genitori con le stesse facce e le stesse mani, non abbiamo mai finto un sorriso o recitato un affetto, che ci siamo allargati il cuore per il piacere di un abbraccio, noi che siamo stati felici di riempire il diritto di un bacio, di una carezza, perché ora ci sentiamo puniti?”
Ma il lamento non servì, l’egoismo di un amore mi avvisò che era inutile: Marino non c’era più, ormai lo potevamo trovare solo nei ricordi.
Si, sono stato uno dei tanti genitori del piccolo Marino; genitore provvisorio e precario come un documento, però genitore del cuore quando ripasso un tormento che è difficile dimenticare.
Oggi quando lo ripenso è come farmi una scortesia all’umore. Così l’unico modo per cercare di star meglio è sollecitare una speranza. Allora, ogni volta, pagherei il doppio delle sofferenze pur di sapere che Marino non va a scuola da solo, che i suoi pranzi e le sue cene sono rumorose come una folla, che ha imparato ad andare in bicicletta, che sua madre non è più un ritardo notturno ma puntuale come il bacio della buonanotte e l’abbraccio del giorno e, soprattutto, che non gli si tolga mai – dico mai e poi mai – la sacrosanta giustizia di una carezza genitore.
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