torna all’indice del Bollettino 3-4 2012

tratto da Prospettive assistenziali n. 179-180

LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI AFFIDATI

Il Tavolo nazionale Affido, organismo di raccordo tra le associazioni nazionali e le reti nazionali e regionali di famiglie affidatarie, di cui l’Anfaa fa parte (1), ha predisposto il seguente documento, approvato il 28 giugno 2012, che riportiamo, sul tema della continuità degli affetti dei minori affidati al fine di contribuire al dibattito nazionale sul tema affrontato negli ultimi due anni da più parti (2).

La presente riflessione prende a riferimento il documento “Dieci punti per rilanciare l’affidamento familiare in Italia” presentato dal Tavolo in occasione della Conferenza nazionale per la famiglia svoltasi a Milano nel novembre 2010 e pubblicato in questa rubrica sul n. 172.

Sull’importanza delle relazioni interpersonali nella costruzione della personalità del bambino gli aderenti al Tavolo hanno ritenuto doveroso porre in risalto alcuni principi indispensabili al fine di tutelarne il preminente interesse, evitando nel contempo anche pericolosi varchi tra l’istituto dell’adozione e quello dell’affidamento familiare che potrebbero snaturare quest’ultimo.

Va peraltro evidenziato che l’attuazione di questi principi è già pienamente garantita dalla legislazione vigente, anche se, purtroppo, sia nella prassi giudiziaria sia in quella operativa, risulta sovente disattesa. 

TESTO DEL DOCUMENTO

  1. Il diritto alla continuità degli affetti

Secondo la Convenzione dei diritti dell’infanzia dell’Onu, la tutela dell’interesse superiore del minore deve assicurare protezione e cure necessarie al suo benessere e favorire lo sviluppo armonico dei suoi doni e delle sue potenzialità mentali e fisiche. In tale luce va letto il diritto alla continuità dei legami affettivi che sono stati costruiti durante il suo percorso di crescita.

Le modalità di tutela della continuità degli affetti vanno programmate e concordate nell’ambito del progetto di affidamento fra tutti gli interessati: operatori, genitori o parenti del minore, affidatari, eventuale futura famiglia (nuovi affidatari, genitori adottivi, ecc.).

La tutela della continuità degli affetti va innanzitutto intesa come tutela delle relazioni precedenti all’affidamento, sia innanzitutto nei confronti della famiglia di origine, sia verso altre figure di riferimento. Tale tutela richiede la previsione, nell’ambito del progetto di affidamento, di appositi ed adeguati interventi atti a facilitare e sostenere le diverse relazioni già esistenti, dedicando particolare attenzione, salvo motivati casi di urgenza, ad un avvio attento e graduale dell’inserimento nella famiglia affidataria.

Vanno tutelati anche gli affetti sorti durante l’affidamento, in particolare tra il minore in affido e la famiglia affidataria. Questa tutela si sostanzia innanzitutto nell’evitare interruzioni traumatiche delle relazioni e/o passaggi ingiustificati in strutture, sia quando si dovesse disporre l’inserimento in un’altra famiglia (affidataria o adottiva), sia quando si decidesse per il rientro nella famiglia d’origine o in quella di parenti. Restando valida l’eccezione per gli allontanamenti improvvisi resi necessari da gravi e comprovati motivi, questi devono essere comunque condivisi e motivati dai giudici e dagli operatori e, ove possibile, con gli affidatari e con l’affidato (secondo modalità definite caso per caso, in relazione anche all’età del minore e alla durata dell’affidamento).

Nell’attuare il cambiamento di situazione si presterà particolare attenzione a definire le specifiche modalità di:

  • preparazione affettiva e comunicazione al minore della decisione assunta ponendo particolare cura in funzione dell’età del minore e della sua capacità di discernimento;
  • trasmissione da parte della famiglia d’origine o degli affidatari di notizie e informazioni sulle abi­tudini e sulle necessità specifiche del bambino;
  • nella chiusura dell’affido, gradualità del passaggio tra gli affidatari e la nuova realtà, con un incremento progressivo dei tempi di lontananza dagli affidatari, nel rispetto delle relazioni instaurate dal bambino;
  • mantenimento dei rapporti con gli affidatari, favorendo visite periodiche nel tempo che permettano al minore di elaborare la sua storia e di non dover cancellare gli aspetti positivi che l’hanno costruita.
  1. Casi eccezionali di passaggio dall’affido all’adozione

Anche nei casi, peraltro eccezionali, in cui il minore già collocato in affido venga dichiarato adottabile e quindi collocato in una famiglia adottiva, va tutelata la continuità delle relazioni da lui instaurate con gli affidatari.

  1. a) Adozione del minore da parte degli affidatari

Quando viene dichiarato adottabile un minore affidato dai servizi sociali o dal Tribunale per i minorenni, la tutela della continuità degli affetti, nell’interesse del minore, può comportare anche l’adozione legittimante da parte degli stessi affidatari, purché siano rispettate le seguenti condizioni:

  • che il rapporto creatosi tra il minore e gli affidatari sia significativo, stabile, duraturo;
  • che gli affidatari siano disponibili ad adottarlo (occorre sostenere il delicato discernimento che gli affidatari sono chiamati a fare, rifuggendo ogni pressione che ne condizioni la scelta);
  • che gli affidatari siano in possesso dei requisiti per l’adozione.

Si ritiene altamente raccomandabile, soprattutto nei casi in cui l’affidamento del minore si prospetti fin dall’inizio di lunga durata e/o ad esito incerto, una particolare cautela nella scelta della famiglia affidataria (ad esempio orientandosi verso famiglie con figli e con pregresse esperienze di affido) in virtù del maggiore bisogno di esperienza e chiarezza di motivazioni che queste situazioni richiedono in vista del preminente interesse del minore.

La pregressa conoscenza della famiglia di origine dell’affidato da parte degli affidatari non dovrebbe essere di ostacolo all’adozione da par­te degli stessi affidatari, allorché ricorrano le condizioni sopra citate, e cioè quando i predetti risultino disponibili e idonei all’adozione (salvo che si ravvisi il rischio di interferenze gravemente disturbanti da parte della famiglia di origine sulla vita del minore, tali da rendere preferibile il trasferimento in un’altra famiglia adottiva).

Le ipotesi di cui sopra sono estendibili anche al caso dell’adozione del minore da parte della famiglia residente in comunità, salvo che il minore stesso non evidenzi una volontà di “chiudere un percorso”. Talvolta infatti il contesto della comunità, seppur positivo, può avere per il minore l’effetto di ricordargli/riportargli un “tempo difficile e problematico” che egli desidera lasciarsi alle spalle.

  1. b) Adozione del minore da parte di altra famiglia adottiva

Anche, e forse specialmente, in questo caso – ove cioè sia necessario il collocamento in una diversa famiglia adottiva – è necessario tutelare la continuità degli affetti del minore, se rispondente al suo preminente interesse e nei limiti del rispetto della potestà dei genitori adottivi. Occorre a tal fine realizzare un adeguato lavoro di consapevolizzazione dei genitori adottivi sull’importanza di evitare brusche interruzioni delle relazioni che fanno parte della vita del loro bambino/a, interruzioni inevitabilmente vissute come traumatici abbandoni.

Tutte le persone coinvolte nel passaggio dall’affido all’adozione (minore, genitori affidatari, figli degli affidatari) vanno sostenute con specifiche attenzioni, sia nella fase di definizione della disponibilità all’adozione, sia durante le successive tappe del percorso. A tal fine il servizio sociale titolare e l’associazione eventualmente indicata dagli affidatari concordano specifici percorsi di preparazione e supporto. L’associazione, se richiesto dagli affidatari, può accompagnarli anche nell’iter con il Tribunale per i minorenni. Qualora il minore affidato fosse portatore di bisogni che hanno reso necessaria la messa a disposizione da parte dell’ente di particolari sostegni (economici, socio-educativi, sanitari, …) occorre prevedere la possibilità di darne prosieguo anche dopo l’adozione, in attuazione a quanto previsto dall’articolo 6, comma 8 della legge n. 184/1983.

  1. Continuità degli affetti e comunità per minori

Quanto sopra va applicato anche in merito alla salvaguardia dei rapporti affettivi e relazionali sviluppati dai minori durante il periodo di affidamento ad una comunità, specie se gestite da una coppia genitoriale residente.

Anche in tale situazione valgono gli stessi principi enunciati per l’affidamento familiare: evitare interruzioni traumatiche delle relazioni nel momento dell’uscita dalla comunità indipendentemente dal motivo: sia che sia previsto un rientro in famiglia d’origine o un inserimento in un’altra famiglia (affidataria o adottiva) o un collocamento in una diversa struttura di accoglienza.

Ovviamente in ciascun progetto specifico si dovrà circostanziare e contestualizzare il diritto della tutela della continuità degli affetti per il mi­nore con la situazione particolare in cui si trova ed in cui si realizza l’uscita dalla comunità. L’in­teresse superiore della tutela del minore potrà anche portare in alcuni casi particolari a rendere maggiormente veloce il passaggio di uscita e ad affievolire nel tempo i rapporti con la comuni­tà, assecondando anche le esigenze del minore.

Non è supportata da studi scientifici e tanto meno dalle esperienze concrete, ed è pertanto non condivisibile, la prassi (in uso nel caso di trasferimento di un minore da una famiglia affidataria ad un altra famiglia) di inserire provvisoriamente il minore in una comunità in nome di una presunta necessità di un suo “decongestionamento affettivo”, come preparazione al suo nuovo inserimento familiare. Sia perché, con le dovute attenzioni, può essere positivamente realizzato il passaggio diretto da una famiglia ad un’altra, sia perché appare fallace ritenere che le comunità residenziali siano dei contesti affettivamente neutri (occorrerà piuttosto ricorrere consapevolmente alle comunità in quei casi specifici e circostanziati in cui il minore manifesti bisogni tali da richiederne gli specifici interventi) sia perché da un’esperienza di attaccamento il minore potrà affidarsi con sicurezza ad altri adulti e creare nuovi sani e sicuri legami. Ogni bambino/a è in grado di far convivere dentro di sé affetti di livello diverso che si sommano per creare la sua individualità e per farne una persona che vive a suo agio nella società.

  1. Finalità e durata dell’affidamento familiare

Il tema della continuità affettiva è fortemente connesso a quello della finalità e della durata degli affidamenti. A tale riguardo è opportuno ribadire:

  • che l’obiettivo prioritario dell’affido è garantire il benessere del minore dandogli la possibilità di crescere in una famiglia;
  • che l’esito dell’affido dovrebbe essere il rientro del bambino nella sua famiglia di origine;
  • che, tuttavia, un affidamento non può essere giudicato riuscito o meno solo in base alla sua durata e all’effettivo rientro del bambino nella sua famiglia di origine.

L’attuale normativa non pregiudica, positivamente, la possibilità di affidi a lungo termine se questo corrisponde all’interesse del minore: sono molti i casi  in cui i genitori al di là dei sostegni non sono in grado di provvedere da soli alla crescita del minore, pur non ricorrendo gli estremi per la dichiarazione di adottabilità. È tuttavia da stigmatizzare il fatto che in molti casi l’affidamento  si prolunga per l’inerzia delle istituzioni a sostenere con interventi adeguati la famiglia d’origine e a causa della mancata messa a disposizione delle famiglie  in difficoltà di aiuti  non solo economici e assistenziali, ma anche di quelli che afferiscono alla casa, al lavoro, all’affiancamento amicale.

In tal senso il realizzarsi di affidamenti di lunga durata, anche se adeguati e necessari in taluni specifici casi, non può essere considerato la normalità e deve essere sempre sostenuto da specifici progetti monitorati con regolarità. I dati riportati dalla “Rilevazione coordinata dei dati in possesso delle Regioni e Province autonome su bambini e adolescenti fuori dalla famiglia in affidamento familiare (a singoli, famiglie e parenti) o accolti nei servizi residenziali nella propria regione, dati al 31 dicembre 2008”, presentata nel febbraio 2011 dal Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, dai quali emerge che il 55,9% degli affidamenti familiare dura più di due anni e che i 3/5 di questi durano più di 4 anni, impongono una riflessione in merito ai motivi che determinano queste percentuali. Il fatto poi che il 72,4% degli affidamenti è giudiziario, cioè disposto a seguito di un provvedimento del Tribunale per i minorenni, impone doverosamente di verificare se trattasi di affidamenti iniziati con il consenso della famiglia di origine e poi tramutati in giudiziari alla scadenza dei due anni o piuttosto di affidi partiti dall’inizio con un intervento giudiziario e senza aver ottenuto il consenso della famiglia d’origine.

ADOZIONE: DIRITTO DEI BAMBINI SOLI E SENZA FAMIGLIA, NON DEGLI ADULTI CHE VOGLIONO UN FIGLIO

L’Aibi, Associazione amici dei bambini, ha promosso negli ultimi mesi una raccolta di firme su un suo “Manifesto per una nuova legge dell’adozione internazionale”, su cui Prospettive assistenziali è già intervenuta (cfr. l’articolo “L’adozione in pancia: una sconvolgente proposta dell’Aibi”, n. 178, 2012).

L’Anfaa insieme a Batya (Associazione per l’accoglienza, l’affidamento e l’adozione), Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) e al Ciai (Centro italiano aiuti all’infanzia), ha predisposto nell’ottobre 2012 il documento che pubblichiamo.

L’adozione internazionale non è in crisi

Nel 2011, in Italia, sono stati adottati 4.022 bambini stranieri: si registra quindi una leggerissima flessione rispetto al 2010, anno in cui, con 4.130 adozioni internazionali, l’Italia addirittura si è attestata al secondo posto nel mondo per numero di adozioni internazionali realiz­zate!

Si registra solo una lieve diminuzione delle coppie disponibili all’adozione – nel 2008 erano 6.147 a fronte delle 5.697 del 2010 – mentre è significativo il calo (oltre il 30%) delle dichiarazione di idoneità pronunciate nel 2010. Questo calo non deve essere a nostro avviso valutato come dato negativo ma va piuttosto considerato un segnale di maggior scrupolo da parte dei Tribunali per i minorenni (e delle Corti di appello) nella valutazione degli aspiranti genitori adottivi in relazione alle condizioni sempre più complesse dei minori adottabili: del resto, più volte, anche nei Rapporti Crc (Convention on the Rights of the Child) pregressi, le stesse Associazioni hanno chiesto ai Tribunali per i minorenni di operare una selezione più decisa delle coppie disponibili, in virtù di una riconosciuta maggior complessità delle situazioni dei minori adottabili.

I minori vulnerabili non sono bambini abbandonati

Le stime addotte dall’Aibi circa il numero dei bambini abbandonati, e quindi adottabili (145 milioni nel 2004 e 168 milioni nel 2009), fanno riferimento a quanto riportato nei rapporti di Usaid (United States Agency for International Development) e Unicef, che peraltro si riferiscono ai bambini vulnerabili, orfani di uno o entrambi i genitori. È arbitrario affermare che un bambino orfano, solo in quanto orfano di entrambi i genitori o a maggior ragione di uno solo di essi, debba sempre essere considerato un bambino “abbandonato” e quindi in stato di adottabilità. Questi erronei e superficiali messaggi minano la cultura stessa della residualità e sussidiarietà dell’adozione internazionale. La Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, e, più in particolare, quella de L’Aja del 1993, relativa alla tutela dei minori e alla cooperazione in materia di adozione internazionale, hanno stabilito dei principi di fondo per la tutela dei diritti dei bambini privi di famiglia: principi che sono stati accolti dalle legislazioni di molti Paesi, compresa l’Italia, che ha ratificato quest’ultima convenzione con la legge n. 476/1998. Alla base della stessa c’è l’affermazione che l’adozione internazionale – intervento di altissimo valore civile e sociale – deve essere intesa e realizzata nell’interesse preminente del minore, nella sua funzione residuale cui fa ricorso, allorché i minori privi di assistenza morale e materiale non possano trovare una famiglia sostitutiva nel proprio Paese di nascita per mancanza di risorse interne.

Non servono più adozioni internazionali: serve un maggior rispetto della sussidiarietà dell’adozione

Poiché i minori in stato di vulnerabilità nel mondo sono centinaia di milioni, occorre promuovere, nei Paesi di origine, politiche sociali locali dirette ad assicurare il diritto di ogni minore a crescere in famiglia, anzitutto nella sua d’origine, adeguatamente supportata e, quando questo non è possibile, nel suo preminente interesse, in una famiglia affidataria o adottiva, secondo le situazioni. L’istituzionalizzazione do­vrebbe essere l’ultimo intervento cui ricor­rere.

La cooperazione internazionale richiamata nei protocolli e negli accordi bilaterali, deve essere realizzata attraverso interventi idonei a sviluppare nel Paese una risposta in termini familiari (sostegno alle famiglie in difficoltà, affidamento familiare, adozione, secondo le situazioni) creando così una progressiva alternativa alla necessità di ricorrere all’espatrio dei bambini dal proprio Paese di nascita a causa della mancanza in loco di alternative familiari disponibili.

La cooperazione internazionale non deve diventare uno strumento per ottenere più bambini stranierida adottare

Siamo favorevoli a un’azione diretta a rafforzare una politica estera che contempli interventi finalizzati a prevenire l’abbandono, considerando l’adozione internazionale l’ultima ratio.

Per perseguire questo obiettivo proponiamo:

  • una maggior collaborazione tra Commis­sione per le adozioni internazioni, Ministero degli affari esteri e Ambasciate, mentre siamo fermamente contrari al trasferimento delle competenze della Cai (Commissione adozioni internazionali) al Ministero degli esteri;
  • che le risorse destinate all’implementazione del principio di sussidiarietà, nel rispetto dei principi della legge attuale, vengano gestite come parte integrante del sistema di cooperazione.

Non serve una maggior quantità di famiglie, ma una miglior qualità delle stesse

È vero che le famiglie che hanno presentato la loro disponibilità per l’adozione e che sono state dichiarate idonee all’adozione internazionale sono in sovrannumero rispetto alle adozioni realizzate ogni anno nel nostro Paese. Malgrado ciò, molti bambini segnalati dall’estero non vengono adottati perché grandi e/o con disabilità o problemi di salute o perché appartenenti ad un fratria numerosa. Per dare una risposta adeguata a questi minori c’è bisogno di genitori preparati e supportati dalle istituzioni. Il che vuol dire famiglie con maggiori risorse. A tali risorse deve però essere garantito, nel tempo, come ribadito successivamente, un accompagnamento pre e post adozione puntuale e tempestivo e deve essere previsto anche un sostegno economico. Pertanto:

  • chiediamo che le persone candidate all’adozione siano attentamente informate, formate e valutate sulla base delle loro risorse individuali e di coppia, nell’interesse superiore del minore. Non si riesce davvero a comprendere in base a quali seri motivi debba essere eliminata – come vorrebbe l’Aibi – quella valutazione/preparazione che consente di affidare il bambino adottabile a coloro che forniscono le maggiori garanzie. Come recita espressamente l’articolo 6 della legge 184/1983, gli aspiranti genitori adottivi «devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare». Premessa indispensabile per un felice inserimento del minore, spesso già duramente provato dalle privazioni e dalle sofferenze subite, è un’accurata preparazione e selezione degli aspiranti coniugi adottivi che richiede dunque una conoscenza approfondita della loro personalità, della loro situazione ambientale, dei loro rapporti con i propri familiari da acquisire anche attraverso incontri e visite domiciliari. È importante accertare, ad esempio, se la coppia abbia accettato la propria sterilità (che è, attualmente, il principale motivo delle domande di adozione) e se abbia maturato la consapevolezza che il figlio adottato non è il sostituto di quello che non ha potuto procreare, ma è il suo figlio a tutti gli effetti: se abbia pienamente compreso il vero significato della relazione famigliare che deriva dai legami affettivi e reciprocamente formativi che si instaurano tra genitori e figli, a prescindere dal dato puramente biologico;
  • chiediamo che – nell’interesse preminente dei bambini – si prevengano i cosiddetti “fallimenti adottivi” attraverso una sempre più attenta valutazione/preparazione degli aspiranti adottanti: è indispensabile evitare il più possibile i gravi e spesso irreparabili danni provocati dall’adozione di minori da parte di persone inidonee;
  • auspichiamo il miglioramento della collaborazione tra enti autorizzati e servizi territoriali, sia nel pre che nel post-adozione, nella valorizzazione delle singole professionalità;
  • chiediamo l’introduzione di requisiti di eccellenza nei confronti degli enti autorizzati, con la possibilità di una maggior definizione non solo dei costi, ma anche del livello professionale offerto dall’ente per l’erogazione di servizi;
  • sosteniamo il ruolo insostituibile che la legge vigente assegna al Tribunale per i minorenni nella valutazione di idoneità degli aspiranti genitori adottivi, nel superiore interesse dei minori e a garanzia delle coppie stesse: l’intervento della giurisdizione, seppur migliorabile, deve assicurare uniformità ed equità nei giudizi su tutto il territorio nazionale;
  • ribadiamo che la celerità dell’iter adozionale non è affatto una garanzia di qualità, anzi presenta fortissimi rischi. Pertanto i termini di durata delle pratiche previsti dalla legge vigente devono continuare ad essere meramente ordinatori, e non certamente perentori, come invece vorrebbe l’Aibi.

Sostenere le adozioni “difficili”

Per sostenere le adozioni dei minori con “bisogni speciali” è necessario poter contare su famiglie forti che devono essere ancor più informate, formate, selezionate, sostenute e supportate nel tempo, anche economicamente, almeno fino al raggiungimento della maggiore età dell’adottato.

Gli interventi di sostegno a queste adozioni da parte dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali previsti dall’attuale normativa (comma 8 articolo 6 legge 184) non sono però un diritto esigibile in quanto gli stessi sono subordinati alle “disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci”. L’istanza da rivolgere alle istituzioni pertanto non è quella fuorviante e demagogica di un cambiamento legislativo per allargare la possibilità di adozione internazionale a persone sole o anziane, ma quella di assumere provvedimenti idonei a rendere operative queste disposizioni e rendere così il sostegno a queste adozioni un intervento realmente esigibile. È scandaloso che finora solo la Regione Piemonte abbia approvato una delibera in merito!

Sulle nuove “accoglienze innovative” proposte da Aibi esprimiamo il nostro fermo dissenso, in quanto:

1) la kafala (3) non può essere riconosciuta in Italia come affidamento preadottivo. Così come osservato dal 5° Rapporto Crc, già citato, a proposito del rapporto tra kafala e adozioni internazionali, «la kafala è giuridicamente distinta dall’adozione e non rientra nel campo di applicazione della Convenzione de L’Aja del 1993 sulla cooperazione in materia di adozione internazionale, quindi le garanzie ivi previste per l’adozione dei minori stranieri non sono ad essa applicabili» (4);

2) non si ravvisa assolutamente la necessità e l’opportunità di introdurre l’affido internazionale, istituto foriero di abusi, poiché non ben definito: occorre, piuttosto, promuovere e rafforzare l’affidamento nazionale. È necessario, inoltre, regolamentare i cosiddetti “soggiorni climatici” o “solidaristici”, prevedendo la selezione e il controllo delle famiglie ospitanti. Al riguardo, il Rapporto Crc del 2009 (pagine 154/5) denuncia: «È elevato il rischio relativo all’aggiramento della normativa che disciplina l’adozione internazionale connesso alle richieste di adottare il bambino preventivamente ospitato; manca una valutazione preventiva dell’idoneità delle persone ospitanti, con evidenti rischi per il buon esito del soggiorno, così come manca un albo o un elenco delle associazioni impegnate in questo settore e quindi di criteri condivisi sulla base dei quali valutare la loro idoneità ed il loro operato. Un’ulteriore criticità consiste nel fatto che i minori temporaneamente accolti provengono sovente da istituti, situazione particolarmente grave se si considerano le ricadute psicologiche negative sui minori che possono essere ad essa collegate: minori istituzionalizzati da anni, senza più rapporti con genitori sovente decaduti della potestà parentale, sono stati ospitati da famiglie in Italia, fino a 90 giorni l’anno, per svariati anni, con la conseguenza di creare aspettative, illusioni, traumi al momento del distacco e del rientro nel Paese di origine».

Per queste ragioni il gruppo Crc ha raccomandato, tra l’altro, «al Ministero degli affari esteri in collaborazione con la Commissione per le adozioni internazionali uno specifico impegno per sostenere iniziative in alternativa al soggiorno in Italia, nei luoghi e comunità da cui provengono i minori, dirette a promuovere il loro diritto a crescere in famiglia, anzitutto quella d’origine e quando questo non sia possibile, in un’altra famiglia, adottiva o affidataria, secondo le situazioni»;

3) del tutto inaccettabile, infine, appare l’introduzione, sotto qualsiasi forma, di una pre-adozione del nascituro durante la gestazione, la quale è espressamente vietata anche dalla Convenzione de L’Aja, che – agli articoli 4, lettera c) n. 4 e 29 – non permette alcun contatto tra i futuri genitori adottivi e i genitori biologici prima che sia stata accertata la condizione di adottabilità del minore. Nel superiore interesse del bambino, soltanto dopo la sua nascita può dunque essere consentito alla partoriente di decidere se riconoscerlo o no, e giustamente la legge italiana non attribuisce ai genitori il diritto (che, di fatto, può molto facilmente trasformarsi in arbitrio) di cedere ad altri il proprio nato (5). Peraltro le partorienti in difficoltà devono avere la possibilità di essere seguite dai servizi sia per quanto riguarda le loro esigenze sanitarie, sia in merito agli approfondimenti occorrenti affinché la decisione relativa al riconoscimento o meno sia assunta in assoluta libertà e con la massima consapevolezza possibile, senza essere viziata da condizionamenti di sorta (6).

Inoltre è evidente che l’adozione “in pancia” favorirebbe il traffico di neonati: come già è stato più volte segnalato dai mezzi di informazione, bande criminali utilizzano partorienti in difficoltà per realizzare lauti guadagni con quanti vogliono un figlio a tutti i costi.

 

(1) Fanno parte del Tavolo nazionale Affido le seguenti associazioni:  Associazione amici dei bambini, Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie), Associazione comunità Papa Giovanni XXIII, Associazione famiglie per l’accoglienza, Cam (Centro ausiliario per i problemi minorili, Milano), Batya (Associazione per l’accoglienza, l’affidamento e l’adozione), Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza), Coordina­mento affido Roma (Coordinamento degli organismi del privato sociale iscritti all’albo per l’affido del Comune di Roma), Coremi – Fvg (Coordinamento regionale tutela minori del Friuli Venezia Giulia), Progetto Famiglia (Federazione di enti no-profit per i minori e la famiglia), Ubi Minor (Coordinamento per la tutela dei diritti dei bambini e dei ragazzi, Toscana).  Sul sito http://www.tavolonazionaleaffido.it/ sono disponibili i testi  dei  documenti   e tutte le informazioni sulle attività del Tavolo.

(2) Vedasi al riguardo l’articolo di Pier Giorgio Gosso, “Corte europea dei diritti dell’uomo: l’adozione di minori in affidamento e la continuità degli affetti”, Prospettive assistenziali n. 172.

(3) Il minore in kafala non ha lo status di figlio, non gode di diritti ereditari e non assume il cognome della famiglia che lo accoglie. Con la maggiore età cessa ogni obbligo a carico della famiglia “accogliente” ed esiste quindi il problema della sorte di questi minori “cresciuti” in Italia una volta divenuti maggiorenni. La kafala è inoltre revocabile.

(4) Si ricorda che tali garanzie sono state recepite dalla legislazione italiana, che le impone, indipendentemente dalla loro nazionalità, a tutte le persone residenti in Italia che chiedano di adottare un minore straniero (articolo 29-bis della legge 184/1983).

(5) Così come richiamato nel Rapporto Crc 2009, «La legge in vigore in Italia disciplina la materia attribuendo alcuni importanti diritti alla donna, e tutelando comunque anche il minore:

  1. a) il diritto della partoriente di riconoscere o meno il neonato come figlio, diritto che vale sia per la donna che ha un bambino fuori dal matrimonio che per la donna coniugata;
  2. b) il diritto alla segretezza del parto (…): nei casi in cui il neonato non venga riconosciuto, nell’atto di nascita del bambino, che deve essere redatto entro dieci giorni dal parto, risulta iscritto come: “figlio di donna che non consente di essere nominata”. L’ufficiale di stato civile, a seguito della dichiarazione del personale sanitario che ha assistito al parto, attribuisce al suddetto neonato un nome ed un cognome, procede alla formazione dell’atto di nascita e alla segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni per la dichiarazione del suo stato di adottabilità; con la pronuncia dell’adozione il minore (dopo un anno di affidamento preadottivo) assume il cognome degli adottanti di cui diventa figlio legittimo e «cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvo i divieti matrimoniali;
  3. c) il diritto della partoriente a chiedere al Tribunale per i minorenni la sospensione della dichiarazione della stato di adottabilità, per un periodo massimo di due mesi, per decidere in merito al riconoscimento del neonato; infatti l’articolo 11 comma 2 della legge 184/1983 stabilisce che tale sospensione può essere richiesta da chi afferma di essere uno dei genitori biologici “sempre che nel frattempo il bambino sia assistito dal soggetto di cui sopra o dai suoi parenti fino al quarto grado permanendo comunque un rapporto con il genitore naturale”. Se il neonato non può essere riconosciuto perché il o i genitori hanno meno di 16 anni, l’adottabilità può essere rinviata anche d’ufficio dal Tribunale per i minorenni fino al compimento dell’età di cui sopra. Un’ulteriore sospensione di due mesi può essere concessa al compimento del sedicesimo anno di età».

(6) Al riguardo si segnala che è in corso presso la Commissione affari sociali della Camera dei Deputati la discussione delle proposte di legge n. 3303 presentata dall’On. Lucà ed altri e n. 1266 predisposta dal Consiglio regionale del Piemonte riguardanti gli interventi in favore delle gestanti e delle madri volti a garantire il segreto del parto alle donne che non intendono riconoscere i loro nati, di cui è relatore lo stesso Presidente Giuseppe Palumbo. La proposta n. 3303 è stata assunta recentemente come testo base.