torna all’indice del Bollettino 1-2 2014

Editoriale

Con sentenza n. 278/2013 depositata il 22 novembre 2013, la Corte Costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.

Con questa sentenza tuttavia, la Suprema Corte non ha censurato quanto disposto all’articolo 30, comma 1° del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, sulla tutela del parto anonimo che dispone quanto segue: “La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”: anzi, facendo espressamente riferimento a tale norma, ha voluto precisare che “sarà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui si è innanzi detto”.

Pertanto il legislatore, per dare una corretta attuazione di quanto disposto dalla Corte Costituzionale, dovrà emanare una normativa rispettosa anzitutto del diritto alla segretezza garantito alle partorienti che hanno dichiarato di non voler essere nominate e che preveda una procedura atta a “cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato”. Riteniamo che, così come fatto presente alle autorità giudiziarie nella nostra lettera inviata il 23 dicembre 2013, fino al momento di una approvazione di una apposita legge nessuna autorizzazione possa essere data in merito alla ricerca delle donne che si sono avvalse della facoltà di partorire in anonimato.

Tale normativa, inoltre dovrà, a nostro parere, stabilire una procedura che riconosca SOLO alle donne che hanno scelto l’anonimato, la facoltà di recedere dalla decisione a suo tempo assunta e di manifestare la propria disponibilità ad incontrare il proprio nato

In questa direzione va la proposta presentata dall’on. Rossomando, alla cui stesura noi abbiamo collaborato e attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera, che prevede quanto segue: le partorienti che hanno dichiarato al momento del parto di non voler essere nominate, possono in qualunque momento rinunciare all’anonimato, segnalando al Garante per la protezione dei dati personali la propria disponibilità ad incontrare la persona cui hanno dato la vita. L’incontro potrà avvenire solo dopo la suddetta rinuncia. L’adottato non riconosciuto alla nascita dalla donna che lo ha partorito potrà, raggiunta l’età di venticinque anni, presentare richiesta al Tribunale per i minorenni del territorio in cui è nato, di poter accedere all’ identità della donna che lo ha partorito. Il Tribunale dovrà quindi esaminare la richiesta che, se accolta, trasmette al Garante per la protezione dei dati personali con le proprie osservazioni affinché ne dia attuazione. Il Garante, avvalendosi dei servizi sociali degli enti locali, assume le necessarie iniziative volte all’organizzazione del loro primo incontro.

Impostazione analoga è contenuta anche nella proposta presentata dall’on. Campana ed altri.

Non riteniamo, invece, ammissibile il percorso inverso, purtroppo previsto da altre quattro proposte di legge a firma degli On Bossa, Marzano Sarro e Cesaro, fino ad ora presentate, cioè che siano i nati da queste donne ad avviare il procedimento presso il Tribunale per i minorenni.

Infatti, se le richieste di accesso all’identità delle donne che li hanno generati partissero, a loro insaputa, dai figli adottivi, le conseguenze andrebbero a determinare, e non solo a nostro parere, una grave violazione del diritto alla segretezza, diritto riaffermato nuovamente proprio da questa sentenza della Corte Costituzionale. Inevitabilmente, queste istanze sarebbero prese in esame da un numero assai elevato di persone:  i giudici ed i cancellieri ai quali si rivolge l’interessato, i responsabili dei reparti maternità e gli addetti alla conservazione del plico in cui sono indicate le generalità della donna e del neonato, il personale dell’anagrafe tributaria nazionale incaricato di rintracciare l’ultima residenza della donna, gli altri giudici e cancellieri incaricati di contattarle (è assai probabile che le donne non abitino più nelle città in cui hanno partorito). Inoltre le lettere di convocazione, indirizzate (su carta intesta del Tribunale o della Procura per i minorenni o da altro ente) alle donne per verificare la loro disponibilità ad incontrare i propri nati, possono molto facilmente essere aperte dai familiari delle partorienti che, avvalendosi del diritto alla segretezza del parto, hanno messo al mondo il loro nato, nella certezza che mai questo diritto sarebbe stato violato dalle Istituzioni che l’avevano garantito con legge. Ricercare a distanza di decenni queste donne, significherebbe un’inclusione pesantissima nella loro sfera intima e metterebbe in pericolo la serenità della vita che esse si sono costruite nel corso degli anni, con gravi ripercussioni su di loro e sui loro familiari, spesso ignari di quanto avvenuto. (Vedi al riguardo, l’accorato appello da noi ricevuto e pubblicato a pag. 34 di questo Bollettino, alla voce Notiziario della Sede nazionale)

Se il Parlamento dovesse approvare una procedura come quella prevista dalle proposte di legge a firma Marzano, Bossa, Sarro e Cesaro, si renderebbe responsabile di un abuso gravissimo nei confronti di decine di migliaia di donne (circa 90.000 dal 1950 fino ad oggi), che si sono finora avvalse del diritto alla segretezza del parto, avendo ricevuto dallo Stato la garanzia che questo loro diritto sarebbe stato rispettato: infatti l’articolo 93, comma 2 del decreto legislativo 196/2003, ancora in vigore, prevede che le loro generalità possano essere segnalate solo dopo cento anni dal parto e soltanto “a chi vi abbia interesse”. Le conseguenze sarebbero dolorose e spesso devastanti.

La legislazione vigente, che garantisce alla donna, anche coniugata (sentenza della Corte Costituzionale n.171 del 5 maggio 1994), il diritto di non riconoscere il proprio nato e offre la possibilità alla partoriente di usufruire di un ulteriore periodo di riflessione (non superiore ai due mesi) per decidere in merito, richiedendo al Tribunale per i minorenni la sospensione della procedura di adottabilità, tutela sia la partoriente, assicurandole un’assistenza adeguata prima, durante e dopo il parto, sia il neonato e previene gli abbandoni e gli infanticidi: la segretezza del parto in anonimato prevista dal legislatore italiano non impedisce la conoscibilità delle notizie riguardanti l’origine dell’adottato non riconosciuto alla nascita, purché le stesse non rivelino i dati identificativi della madre (1).

Il non riconoscimento non è una decisione negativa, ma responsabile della partoriente nei confronti del proprio nato. Catherine Bonnet, psichiatra infantile e psicanalista, componente della Commissione per la tutela dei minori istituita da Papa Francesco contro il fenomeno della pedofilia, lo ha definito un «geste d’amour» . In merito rimandiamo alla toccante testimonianza di Claudia Roffino pubblicata a pag . 28 di questo Bollettino. Anche noi riteniamo la decisione del non riconoscimento, debba essere rispettata e non giudicata: queste donne hanno saputo fare una scelta dolorosa e sofferta, che tutti noi dobbiamo rispettare, in primo luogo i loro nati, cui hanno permesso di venire al mondo e essere accolti da subito nella loro famiglia adottiva, così come prescritto dalla nostra normativa sin dall’entrata in vigore della legge 431/67.

Essendo stati subito dichiarati adottabili e inseriti nelle loro famiglia infatti, i neonati non riconosciuti alla nascita non subiscono le conseguenze negative, a volte irreparabili, determinate dalle deprivazioni affettive patite da tanti altri e ben documentate nei libri “Cure materne e adozione” di Nicole Quemada e “Il paese dei Celestini” (2) di Francesco Santanera e Bianca Guidetti Serra. Ogni anno in Italia sono almeno 400 i neonati non riconosciuti alla nascita dichiarati adottabili. Se il legislatore dovesse stabilire che le donne che non riconoscono il loro nato possono essere rintracciate, vi è il fondato pericolo che questo diritto non venga più esercitato dalle donne che non scelgono l’aborto. La soluzione alternativa non potrebbe essere quella delle culle termiche – riproposizione delle ruote di medioevale memoria – finalizzate, nell’intenzione dei loro promotori, a contrastare “l’abbandono dei neonati nei cassonetti”. Le culle non solo si sono rivelate inefficaci a realizzare questo obiettivo, ma rischiano di incentivare i parti “fai da te” effettuati in condizioni inidonee, privi della più elementare assistenza sanitaria, con gravi pericoli per la salute e la sopravvivenza stessa della donna e del neo­nato.

Com’è ovvio, le donne in condizione di grave disagio personale e socio-economico, non hanno alcuna possibilità di sopportare le spese che comportano i parti a domicilio effettuati con le necessarie garanzie sanitarie.

Questa sconcertante sentenza della Corte Costituzionale che nella sua stringata motivazione ha contrapposto espressamente la genitorialità “naturale”, riferita alla donna che ha partorito nel segreto, alla genitorialità “giuridica” (e quindi formale) del rapporto adottivo, non solo ha mortificato profondamente i genitori adottivi, ma dimostra di aderire ad una concezione della famiglia che con il progresso della civiltà si riteneva definitivamente superata, imperniata sulla rilevanza del legame di sangue e del DNA. Viene così snaturata l’essenza della filiazione, la quale è invece costituita dai rapporti affettivi reciprocamente formativi che si instaurano e si consolidano tra i genitori (biologici o adottivi che siano) e i loro figli (biologici o adottivi che siano).

L’identità di una persona, si costruisce nell’ambito di un processo dinamico di interazione con la realtà, all’interno delle relazioni affettive più significative stabilite con le figure di massimo riferimento, particolarmente nel tempo della prima infanzia. È nel quotidiano esplicitarsi di queste relazioni che si definisce la personalità di ciascuno di noi, indipendentemente dal patrimonio genetico di cui siamo portatori.

È l’ambiente familiare che educa il figlio e ne forma i lati essenziali del carattere e costituisce la base della sua personalità.

Nell’articolo “L’adozione: diventare genitori, diventare figli” (3), Dante Ghezzi, psicologo, psicoterapeuta e formatore dell Centro TIAMA di Milano scriveva “Chi è allora un vero genitore? Sia quello biologico che quello adottivo, se realizzano una piena accettazione del bambino e dei suoi diritti. Dicevamo che un genitore è colui che prende il bambino con sé, lo protegge, lo cura, si dedica a lui; colui che accoglie, dà calore, sta vicino, si preoccupa, trepida, consola, premia, corregge.

Allora un bambino si sente figlio, cioè unico, amato, desiderato, colmo di valore. Allora egli sente di appartenere ad una famiglia, di essere in un porto sicuro, sente crescere in sé la fiducia verso la vita. Egli potrà quindi rispondere col proprio sentirsi accolto e amato, vivere coloro che gli danno la vita come figure genitoriali piene, rendendole autentiche e dando loro riconoscimento. Nell’adozione si supera la unilateralità della procreazione biologica che è fatto dei soli adulti e si costituisce la filiazione come fatto integrato, sorto dal concorso di due contributi.

Del resto anche nella famiglia biologica i genitori, pur con la spinta naturale ad accogliere e a crescere il loro bambino, devono fare un percorso che li porti a viverlo come figlio; percorso non sempre facile, qualche volta neppure intrapreso o conducente ad esito negativo (abbandono) o che si svolge tra tali difficoltà da non far sorgere quella vicinanza e appartenenza reciproca che costruisce il sentirsi figli accettati e il viversi come genitori pieni.

L’adozione dei bambini altrui perché diventino figli di chi li accoglie è un valore riconosciuto nel codice di Hammurabi da quattromila anni, è sancita come atto emancipatorio dal diritto romano e citata da Fedro e da San Giovanni Crisostomo come innesto che garantisce l’inserimento e rispetta la specificità di chi è accolto. Essa è un atto di cultura, di consapevolezza, che implica una scelta iniziale e che si realizza quindi in un percorso che fa essere pienamente figli e genitori gli attori di questo incontro e di questo cammino, rendendola non seconda alla filiazione biologica (…). Se il legame di sangue fosse un aspetto della natura umana e non un prodotto culturale, non si potrebbero – in linea di principio- giustificare l’adozione e le tante forme di relazione caratterizzate dall’assunzione di una funzione educativa e di cura che si strutturano al di là della biologia, né esisterebbero forme di società in cui l’educazione della prole non è affidata ai genitori biolo­gici”.

Purtroppo viviamo infatti in una società che, come dimostra anche questa sentenza della Corte Costituzionale, risente ancora della negativa influenza della “cultura del sangue” (e del “DNA”): questa cultura ha pesanti conseguenze sui figli adottivi, che sono visti dagli altri, e conseguentemente, indotti a considerarsi non come figli a tutti gli effetti dei genitori adottivi, ma come figli, in primo luogo, di chi li ha messi al mondo.

È evidente come questi pregiudizi vadano a incidere in misura rilevante sulla formazione dell’identità, sul senso di sicurezza, e sull’autostima dei figli adottivi (e degli stessi genitori adottivi) e possono condurre a un incremento, anche notevole, del numero di coloro che si illudono di poter trovare la risposta ai loro interrogativi, ai loro dubbi e ai loro problemi esistenziali, nel ritrovare chi li ha messi al mondo. Non vogliamo negare la complessità, la delicatezza e l’estrema variegabilità delle diverse situazioni e anche della sofferenza che accompagna chi è ancora alla ricerca della propria identità, di chi sente forte l’esigenza di ricomporre “i pezzi” della propria storia e di poter dare risposta ai loro tanti “perché?”. In ogni caso la ricerca dei propri genitori biologici rischia, non solo di non dare alcuna risposta agli inter­rogativi di coloro che sono stati adottati, ma di porli di fronte a situazioni, anche molto gravi, che possono condizionare pesantemente la loro vita futura.

Riteniamo che non si possa mettere sullo stesso piano il diritto della donna che si è avvalsa del parto in anonimato e la richiesta dell’adottato di accedere alla sua identità: lo stesso art.28 della legge 184 non riconosce un diritto in capo ai figli adottivi riconosciuti alla nascita, ma una facoltà che può essere loro riconosciuta o meno dal Tribunale dopo l’espletamento di una procedura precisa.

L’unico vero diritto di un bambino in situazione di adottabilità e, a maggior ragione, dei neonati non riconosciuti alla nascita, è quello di essere al più presto dichiarati adottabili e inseriti in una famiglia adottiva.

 

 

(1) Durante la durata del segreto del parto (cento anni) la richiesta di accesso al certificato o alla cartella clinica può essere accolta relativamente ai dati sanitari relativi alla donna che ha dichiarato di non voler essere nominata.

(2) Interamente reperibile al link: http://www.fondazionepromozio­nesociale.it/fps.itmemo/libro_celestini/Ilpaesedeicelestini.pdf

(3) Prospettive Assistenziali, n. 130, 2000.