torna all’indice del Bollettino 01-02/2009

Pubblichiamo il comunicato stampa emesso dall’Anfaa e dal CSA Coordinamento Sanità e Assistenza fra i movimenti di base di Torino, a seguito della richiesta dell’arcivescovo di Pompei di riaprire gli Istituti di ricovero dell’infanzia in difficoltà e di seguito la lettera inviata da Antonino Bombaci genitore adottivo e socio Anfaa.

Comunicato stampa

Su La Stampa del 20 ottobre 2008 l’Arcive­scovo di Pompei, Mons. Carlo Liberati, ha fatto la seguente sorprendente gravissima affermazione: «Serve il coraggio per riaprire gli orfanotrofi per salvare 46 mila bambini abbandonati».

In primo luogo osserviamo che non è vero che vi sono in Italia «46 mila bambini abbandonati».

Secondo gli ultimi dati ufficiali del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza al 31 dicembre 2005 erano attivi 2.226 servizi per minori (soprattutto comunità alloggio parafamiliari) che accoglievano 11.543 bambini e adolescenti. Alla stessa data, il numero dei minori in affidamento familiare a scopo educativo erano ben 12.551 (con un incremento del 23% rispetto al 2000.

Mons. Liberati afferma che la legge 149/2001, che ha modificato la legge 184/1983 sull’adozione e sull’affidamento educativo, è «una legge fallimentare».

Non è assolutamente vero com’è dimostrato, ad esempio, delle numerose positive esperienze illustrate nei convegni di Torino del 28 maggio 2008, promosso dalla Facoltà di scienze della formazione dell’Università di Torino sul tema “Minori in difficoltà. Strategie di accoglienza in diversi contesti” e da quello organizzato dalla Regione Piemonte il 21 e 22 febbraio 2008 “Affido: legami per crescere. Realtà esperienze e scenari positivi”.

Mons. Liberati critica la legge 149/2001 che, sono parole sue, «ha chiuso gli orfanotrofi», ma non precisa che dette strutture di ricovero potevano e dovevano riconvertirsi in ambienti parafamiliari, come lo sono le comunità alloggio aventi al massimo 6-8 posti. Inoltre dimentica che da oltre 50 anni sono state scientificamente accertate (e mai smentite) le nefaste conseguenze delle carenze di cure familiari che danneggiano i bambini ricoverati in istituti a carattere di internato (compresi gli orfanotrofi), nonostante l’idoneità degli operatori addetti e la loro dedizione.

Le leggi vigenti stabiliscono l’obbligo dei Tribunali per i minorenni di aprire il procedimento di adottabilità nei riguardi dei minori «privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi».

Se Mons. Liberati conosce, come afferma, dette situazioni, perché non le segnala all’autorità giudiziaria, autorità che ha anche il potere d’imporre ai Comuni di fornire ai minori le occorrenti prestazioni socio-assistenziali?

Nel succitato articolo de La Stampa, viene affermato che sarebbe stata avviata dalla Chiesa cattolica una campagna per ri-aprire gli orfanotrofi.

Da parte nostra ci auguriamo che la Chiesa non trascuri i numerosi e positivi esempi degli Ordini religiosi che hanno sollecitato gli enti pubblici a fornire ai genitori in difficoltà i necessari sostegni socio-economici (purtroppo non ancora riconosciuti dalla legge come diritti esigibili), che hanno promosso, a seconda delle situazioni, le adozioni e gli affidamenti familiari a scopo educativo.

Valide esperienze sono state avviate da anni da altri Ordini religiosi che hanno chiuso gli istituti di ricovero a carattere di internato e aperto comunità alloggio parafamiliari di 6-8 posti.

Lettera di Antonino Bombaci

Su La Stampa del 20 ottobre 2008 l’Arcive­scovo di Pompei, Mons. Carlo Liberati, ha fatto la seguente sorprendente gravissima affermazione: «Serve il coraggio per riaprire gli orfanotrofi per salvare 46 mila bambini abbandonati».

Le scrivo le mie avversità verso la minacciata iniziativa di Mons. Carlo Liberati.

Ciò che non mi sorprende e che approvo è che: «Serve il coraggio per riaprire gli orfanotrofi per salvare 46 mila bambini abbandonati».

Poiché senza coraggio non si affrontano i pericoli della vita.

Mons. Liberati è un uomo coraggioso!

I bambini da chiudere in istituto sono un pericolo.

E più crescono più diventano pericolosi.

Lui, ben conosce la vita degli istituti.

Sa benissimo che al loro interno non c’è la “mamma”.

La chiesa ha da sempre trasmesso il valore del significato “mamma” verso quanti la frequentano, sia come luogo di culto sia come punto di aggregazione religiosa.

Ma, a Lui nulla importa se la sera, prima di addormentarsi, un bimbo aspetta la buonanotte dalla mamma.

Se il pianto è conseguenza di una bizza o di un dolore.

Allora è vero! Ci vuole coraggio a riaprire gli istituti.

Mons. Liberati non sa che al loro interno avviene di tutto.

Tutto ciò che di più negativo può avvenire in ragione dell’età anagrafica del bambino che spesso non coincide con quella biologica.

Si. Avviene di tutto.

Perché l’istituto ha anche questa capacità: quella di modificare la psiche del bambino/ra­gazzo.

Di ritardargli la crescita.

Ci sono voluti anni di lotte, di battaglie per rendere il minore libero di vivere con chi gli poteva o ha potuto dimostrargli affetto e stima.

La condizione di emarginazione si manifesta in misura più evidente, nell’ambito del sistema assistenziale; apparato elefantiaco e burocratico.

E riaprire gli Istituti vuole significare “burocratizzare” un rapporto umano nella logica del dare/avere.

La retta mensile è quello che interessa. L’istituto non è una forma strutturata di assistenza al minore. Non si ricorre al volontariato, reso disponibile da chi ha tanto da dare e nulla da ricevere.

L’istituto è l’unica forma arcaica ed anacronistica di “segregazione” dell’essere umano.

Ed ecco i motivi per i quali condivido con Mons. Liberati il fatto che ci vuole coraggio.

Il coraggio di aprire gli istituti deve essere trovato oggi, in un momento di grave crisi economica e finanziaria che sta attraversando tutto il globo, con esclusione dei paesi poveri e poverissimi.

L’elemento unificante e pur tuttavia sempre quello dell’esclusione, della separazione del “minore”, e più specificatamente del minore “povero”, la cui famiglia non è in grado di affrontare autonomamente i propri bisogni ed è costretta a far ricorso alla pubblica assistenza che rivela, nella fattispecie degli istituti, il suo vero carattere.

Io non conosco la vita trascorsa di Mon. Liberati, il cui cognome per ironia, è abbastanza eloquente rispetto a ciò che propone.

Ma una cosa è certa: egli non è mai stato in istituto. Neppure di passaggio.

Io invece, si.

Ci ho vissuto 10 anni.

E non fa differenza se ci ho vissuto negli anni ’50 e non negli anni ’70,’90 o 2000. I sentimenti, gli affetti i bisogni erano tali allora e lo sono oggi.

Un vecchio saggio diceva che: “la civiltà di un popolo si misura dal numero delle carceri.”

Io che non sono ne vecchio ne saggio dico a Mons. Liberati che l’inciviltà di un popolo si misura dal numero dei bambini da chiudere negli istituti e dal numero dei soggetti che la pensano come lui.

Antonino Bombaci

torna all’indice del Bollettino 01-02/2009