In occasione del 50° anniversario dalla fondazione dell’Anfaa, presentiamo quanto è emerso da un breve viaggio tra le idee e i ricordi di un gruppo di figli adottivi adulti in merito agli aspetti fondanti del rapporto adottivo.

Il valore della sincerità

Poiché la sincerità è il valore che sta alla base di ogni rapporto umano che abbia ambizioni di stabilità, riteniamo che ogni genitore dovrebbe sentire la necessità di informare correttamente il proprio figlio della sua provenienza e della sua storia. Il legislatore sembra condividere la centralità di questo assunto nel momento in cui riconosce al minore adottato, nell’art. 28, c.1, l. 184/83 e s.m.i., il diritto di essere “informato di tale sua condizione”, ordinando ai genitori adottivi di provvedervi “nei modi e termini che essi ritengono più opportuni”.

Condiviso il punto di partenza, ci siamo poi interrogati sul “come”, “quando” e “fino a che punto” sia opportuno ricevere tali informazioni.

Quando comunicarlo

Riteniamo innanzitutto che il problema dell’informazione non possa essere risolto in termini di “rivelazione”; un’impostazione di questo genere sottintenderebbe un momento decisivo e preciso nel quale si racconta ai figli la verità senza più bisogno di tornare sull’argomento. Al contrario secondo noi una corretta informazione si deve, per dir così, “incarnare” nella quotidiana esplicitazione di un rapporto d’amore che per crescere ha bisogno di sincerità, chiarezza e continuità. Ciò significa, in concreto, che il figlio adottivo dovrebbe, fin da piccolo, essere cresciuto nella consapevolezza di essere biologicamente nato da altri ma nella convinzione che si diventa “figli”, e pertanto anche “genitori”, attraverso l’affetto e non la mera riproduzione biologica (c.d. figlio del desiderio o del cuore). Giovanni ci racconta:

Non ricordo la prima volta nella quale i miei genitori mi hanno detto che ero stato adottato, mi pare di averlo sempre saputo, o per lo meno di averlo appreso in modo del tutto naturale, nello stesso modo in cui si impara a parlare, a camminare, a riconoscere le persone.

Fabio, invece, conserva dei ricordi:

Io chiedevo spesso a mio papà e a mia mamma da chi ero nato. Mia mamma, ricordo, mi prendeva in braccio e mi stringeva forte forte. Non ricordo di preciso cosa mi raccontasse, ma so che quel gesto di affetto mi bastava. Le parole erano inutili. Dal loro amore nasceva la mia vita. So che loro mi parlavano, a volte mi leggevano dei libretti per spiegare cosa volesse dire essere un figlio adottivo. Ma a me piaceva di più che me ne parlassero in modo tranquillo, che mi facessero sentire che erano pronti ad ascoltarmi.

Il racconto tardivo

Quante volte nella vita quotidiana assistiamo allo sgretolarsi di matrimoni, amicizie, legami di lavoro e di altro genere a causa di reticenze e bugie, che mettono in crisi il rapporto di fiducia sotteso a questo genere di relazioni umane. Il rapporto adottivo non si sottrae certamente a un tale pericolo: mentire ad un figlio in merito alla sua condizione di figlio adottivo o trasmettergli questa informazione con eccessivo ritardo può incrinare irreversibilmente un rapporto costruito nel tempo con tanta fatica.

Emblematica a tal proposito è la storia di Mariella che è venuta a conoscenza del suo stato di figlia adottiva soltanto nella prima adolescenza:

Quando mi è stato detto che ero stata adottata avevo già 12 anni. Devo dire che ci sono rimasta molto male, mi sono sentita tradita, defraudata di una parte della mia vita. Ho sentito che i miei genitori si erano vergognati di dirmi la verità, che forse si erano vergognati di non aver avuto “figli loro”.
Mi era insopportabile pensare che avessero potuto vivere con me per tanto tempo nella menzogna. Non sono mai riuscita a perdonare questi genitori veramente. Non so perché. Sì, oggi non ne parliamo più, ma tra me e loro si è eretto come un muro. Ancora adesso mi chiedo perché l’hanno fatto. Poi razionalmente tento di darmi delle spiegazioni: la mentalità che c’era ancora in quei tempi, ma lo stesso, qualcosa dentro di me si ribella. Avevo diritto che mi si dicesse la verità.

Il primo racconto

Il primo strumento attraverso cui trasmettere queste informazioni sembra essere proprio quello della “spiegazione-racconto” dell’iter che ha preceduto l’adozione, del primo gioioso incontro con il proprio figlio adottivo …

Graziella ricorda:

I miei genitori mi raccontavano spesso della loro gioiosa attesa, colma di timori e di speranze, del nostro primo incontro all’istituto presso cui ero ricoverata, della separazione temporanea che abbiamo subìto a causa di lungaggini burocratiche, della felicità del ritorno a casa insieme. L’idea che i miei genitori fossero venuti a prendermi così lontano perché mi desideravano tanto, era così gratificante e gioiosa che chiedevo continuamente la ripetizione di tale storiella in tutti i suoi particolari, anche se la conoscevo a memoria …

Analogamente Giovanni:

Fondamentale si è rivelata la capacità dei miei genitori di raccontare ripetutamente e con gioia il mio arrivo in famiglia, il fatto di essere stato a lungo desiderato, la felicità nata da quel primo incontro…La reiterazione del ricordo di quei momenti felici mi ha permesso di vivere in modo naturale, senza traumi, il venire a conoscenza dell’essere figlio adottivo.

In effetti esiste un naturale bisogno psicologico di conoscere la propria storia. Sembra proprio che sia esperienza comune di tutti i bambini, adottivi e non, voler sapere come sono nati e come sono stati accolti, come erano da piccoli, che cosa facevano, chi si prendeva cura di loro … Tutti i bambini sono appassionati dal racconto degli adulti sul loro passato e spesso amano riascoltare quanto hanno già udito più volte. Il bisogno di scoprire la propria origine risponde in realtà a un più latente bisogno di appartenenza e di identità.

Un racconto sereno e frequente della storia di questa seconda nascita avvenuta con l’adozione potrà certamente conseguire il risultato di rassicurare il figlio adottivo “bambino” in merito al fatto di essere stato cercato, desiderato, atteso e amato fin dall’inizio, appagando totalmente, almeno in un primo momento, i suoi interrogativi.

Cresce l’età e il bisogno di sapere

Non è difficile immaginare che a questo primo livello di conoscenza seguiranno nel tempo degli interrogativi ben più profondi e dolorosi. Come ci racconta Graziella:

Per me le domande “difficili” sono arrivate in concomitanza con le prime curiosità legate alla procreazione, alla gravidanza, al parto. L’idea fino a quel momento generica e tutto sommato un po’ astratta, di esser nata altrove e di essere stata attesa dai miei genitori per tanto tempo, cominciava a suscitare in me curiosità più precise e specifiche del tipo: “Se non sono stata nella pancia della mia mamma adottiva, chi mi ha fatto? Chi mi ha allattata? Perché sono stata abbandonata?”.
Di fronte a questo genere di domande i miei genitori adottivi si sono interrogati sul da farsi, temendo di farmi soffrire o di non essere riconosciuti da me come “veri genitori”. Ciò nonostante hanno comunque deciso di dare una risposta alle mie domande fortemente problematiche. Non possedendo notizie precise sul conto dei miei genitori biologici, si sono limitati ad espormi le loro presunzioni in merito, ipotizzando delle cause d’abbandono tanto reali quanto generiche, onde evitare di colpevolizzare o di mitizzare i miei “procreatori”.
Penso che il successo della mia adozione sia proprio legato al fatto che i miei genitori si siano sentiti tali fino in fondo ed abbiano assunto il loro ruolo con convinzione. Da ogni loro gesto o parola è sempre trapelata la certezza che il “riconoscimento” dei genitori da parte di un bambino non dipende dal legame biologico (“di sangue”), ma dalla capacità del padre e della madre di amarlo, di soddisfare le sue esigenze e di rispondere alle sue domande. Questa loro sicurezza mi ha permesso di acquisire gradualmente la stessa consapevolezza e convinzione, insegnandomi a riconoscere i “veri genitori” in coloro che si sono occupati di me quotidianamente, in coloro che hanno saputo comprendermi e all’occorrenza anche sgridarmi, e soprattutto in coloro che non mi hanno mai mentito.

Un’esperienza di handicap

L’importanza di questo secondo e ben più penetrante livello di conoscenza emerge con forza anche dai bambini adottivi portatori di handicap. Significativa a questo proposito è l’esperienza di Sandro, bimbo focomelico non riconosciuto alla nascita, vissuto in istituto per tredici mesi:

Mi fa male pensare che, forse, sono stato abbandonato per il mio handicap: mi chiedo perché chi mi ha messo al mondo non abbia avuto la disponibilità a tenermi comunque, perché ci sono così tanti preconcetti.
L’adozione è stata la cosa più bella della mia vita. Il mio problema è stato il mio handicap e la protesi che ho dovuto mettere. Mi vergogno ancora un po’ di avere la protesi, soprattutto al mare, ma questo non mi impedisce di andarci. Quando ero alle elementari e qualcuno mi prendeva in giro, mi sentivo ferito.
I miei genitori mi hanno aiutato a capire che nonostante la mia menomazione potevo svolgere una vita assolutamente normale e questo è stata sempre la mia spinta. Così nonostante la protesi, ho imparato a correre, a sciare e ad andare in bici.
Certamente se fossi vissuto in istituto non avrei avuto la forza di affrontare tutte le difficoltà che ho incontrato …

Le domande del bimbo che arriva da lontano

Anche il figlio adottivo venuto da un Paese straniero distante dal nostro per lingua, tradizioni, usi e costumi, somaticamente “diverso” dagli altri bambini e dai genitori adottivi, tende a porsi subito delle domande precise in merito alle proprie origini e quindi a richiedere che non vengano cancellate le proprie radici. Come ci racconta Teresa:

Sono nata in India sono stata adottata a tre anni, fino ad allora ero vissuta in un istituto dove ero stata lasciata dalla donna che mi aveva messo al mondo, una ragazza molto giovane, non sposata.
Quando avevo tredici anni- e frequentavo la terza media, studiando in geografia le problematiche del sottosviluppo, mi sono posta una serie di domande alle quali non ho trovato risposta. Mi aveva messo in crisi lo scoprire che esistevano tanti paesi poveri e poverissimi con un’elevata mortalità infantile e un rilevante numero di bambini che venivano abbandonati.
Quello che dentro di me si faceva avanti era il pensiero: perché solo in pochi ci siamo salvati? E gli altri? Questo mi faceva star male. Ho fatto in quel periodo mille domande ai miei genitori e so di averli messi molto in difficoltà.
Più tardi ho sentito parlare di commercio di bambini, e avevo paura di essere stata rubata ai miei genitori biologici. Chi mi aveva partorito era stato costretto a lasciarmi perché povero? Una domanda si insinuava dentro di me: quanto mi avevano pagato i miei genitori? I primi tempi non ne parlavo con loro. I dubbi rimanevano dentro di me e si trasformavano in certi momenti in atti di ostilità.
Poi un giorno mio padre e mia madre hanno capito quali problemi mi stavano tormentando e mi hanno parlato a lungo: hanno risposto a tutte le domande con calma e pazienza. Mi hanno spiegato che non mi avevano pagata, ma si erano rivolti ad un ente che si occupa di adozioni internazionali e in questo modo erano arrivati a me. Loro non sapevano di preciso il perché la donna che mi aveva procreata non avesse potuto prendersi cura di me, ma per tre anni non era mai venuta a trovarmi e non era giusto che io passassi la mia vita in istituto; così ero stata dichiarata adottabile. Poi mi hanno parlato della povertà nel mondo, della fame: hanno letto con me documenti sulla situazione in India, ma soprattutto mi hanno detto che, quando sono venuti a prendermi, si erano informati se veramente i miei genitori d’origine avevano rinunciato a me e avevano chiesto di verificarlo perché non era loro intenzione portare via un bambino a qualcuno.
Questo dialogo mi aveva rassicurata. Mi chiesero anche se volevo andare in India, ma questo non era un mio interesse. Io mi sentivo ormai italiana anche se non avrei più dimenticato che in certi paesi del mondo esistono tanti bambini senza genitori, senza casa, senza nulla.

L’adozione internazionale deve essere realizzata solo quando non è possibile la permanenza del bambino nella sua famiglia d’origine o, in subordine, in una famiglia affidataria o adottiva nel suo paese; lo stato di adottabilità del bambino deve essere reale ed accertato e non può essere contrabbandato con lo stato di povertà della sua famiglia.

Solo grazie a queste condizioni il figlio adottivo si sentirà pienamente figlio dei suoi genitori.

Qualche figlio adottivo, poi, decide di tornare “fisicamente” alle origini … Ecco come descrive Yai il ritorno nel suo paese natale, la Corea:

Siamo partiti con una sessantina di persone (tra famiglie intere, figli soli, parenti e amici) per vedere quella benedetta Corea e scoprire perché, pur parlando piemontese, pensando e muovendomi come i miei coetanei, gli altri per strada mi guardassero come fossi un marziano! …
Arrivammo a Seoul: la Corea questo paese così affascinante e misterioso che mi aveva catapultata nella vita attraverso un enorme bianco Boeing e che mi ha fatto desiderare caffè, pasta e pizza per tutti i 15 giorni della nostra permanenza.
Lì ho trovato i miei simili: fisicamente uguali a me, ma che non capivo.
Non ho più nulla di coreano, non parlo il coreano, non mi piace la cucina coreana, né mi muovo o mi vesto come un coreano: ho solo l’etichetta che mi dà la gente.
Siamo andati presso l’istituto dove ero stata ricoverata: non ricordavo nulla e nessuno. Primo, perché l’istituto era stato rimodernato. Secondo, perché le persone che lavoravano là quando c’ero io non vi lavoravano più.
Ancora oggi quell’istituto è un ricovero per bambini abbandonati e noi ci siamo rivisti come in un film: è stata una fitta al cuore vedere quei bambini che volevano essere presi in braccio e ti si aggrappavano con tutte le loro forze. Li avrei presi tutti!
Al ritorno, in aereo, incontrammo dei bambini coreani che andavano in adozione in Francia ed è stato come fare quello stesso viaggio che mi portò dai miei genitori.
È naturale che ci sia il desiderio di scoprire chi si è, da dove si venga e dove si vada, ma credo che sia importante vedere e sapere con serenità, come pura acquisizione di informazioni, quindi conoscere il proprio passato senza crearsi chissà quali aspettative, perché a nessuno, neanche ai figli biologici, è dato scegliere di nascere o da chi nascere. Credo che rivedere il posto dove si è nati o dove si è vissuti per qualche anno, appartenga solo a noi stessi, al nostro “io” e che proprio per questo debba essere fatto da soli o con i propri cari e non organizzato da associazioni o enti improvvisati agenzie di viaggi!
Ho visto la Corea come un turista qualunque e soprattutto non ho visto la Corea della mia possibile vita là, sicuramente di povertà e miseria. Per questo motivo avrei preferito farlo come lo immaginavo: andando a zonzo per il paese, parlando con la gente e vedendo la vera Corea, non solo la facciata di copertina.

I genitori adottivi e la verità narrabile

In ogni caso ai genitori adottivi spetterà l’arduo compito di “riempire il buco della memoria”. Si parla a questo proposito della cosiddetta verità narrabile, quale cardine portante della legittimazione genitoriale e, per il bambino adottato, della sua identità adottiva. Verità che si concreta nella spiegazione di un’origine in cui devono trovare posto le persone che hanno generato il bambino, rispettando gli eventi reali antecedenti l’adozione. In questo modo troveranno una loro collocazione l’esplicazione della rinuncia o delle incapacità che hanno legittimato la perdita del ruolo genitoriale dei procreatori biologici e, contemporaneamente, il desiderio dei genitori adottivi di diventare genitori veri di bambini generati da altri.

Non è necessario, e alcune volte neppure possibile e consigliabile, dire tutto, sia perché i genitori adottivi devono essere informati solo, ai sensi di legge, dei “fatti rilevanti relativi al minore emersi dalle indagini” e comunicati loro dal Tribunale, sia perché alcune informazioni possono ferire la sensibilità del bambino, turbando il suo equilibrio psicofisico.

Di fronte a questo compito i genitori si trovano spesso un po’ impreparati e intimoriti. La maggior parte di essi teme, infatti, che una risposta precisa possa provocare al figlio un trauma legato al pensiero di essere stato abbandonato oppure che quest’ultimo divenuto un po’ più grandicello, a seguito dell’informazione in questione, possa andare alla ricerca dei genitori biologici, riconoscendo soltanto in questi ultimi i veri genitori. Questi frequenti comprensibili timori rendono ancora più evidente il ruolo centrale rivestito dai Servizi Sociali sia nella fase della selezione delle coppie che nella fase dell’inserimento del bambino in famiglia durante l’affidamento preadottivo e anche dopo. I genitori adottivi vanno infatti gradualmente preparati a misurarsi con queste difficoltà e ad intendere la “curiosità” del loro figlio adottivo non come un attacco alla filiazione adottiva, ma come il riconoscimento della sua specificità e diversità. Il figlio adottivo vuole essere accolto ed accettato interamente, con il suo passato, i suoi ricordi e le sue curiosità.

La ricerca delle origini

C’è poi un ulteriore livello di conoscenza, che riguarda l’identità dei genitori biologici. Ha diritto il bambino adottato di conoscere il nome e il cognome dei procreatori biologici ed eventualmente anche di rintracciarli e mettersi in contatto con loro?

È su questo tema che la legge 149/2001 ha portato le novità più significative, con l’affermazione del diritto dell’adottato riconosciuto alla nascita di accedere, seguendo un particolare iter guidato e protetto, alle informazioni concernenti l’identità dei procreatori biologici; informazioni invece negate all’adottato nato da donna che ha chiesto di non essere nominata.

Sono attualmente in discussione in Parlamento nuove proposte di legge dirette a rimuovere i limiti rigorosi e gli obblighi di segretezza che la predetta normativa frappone a tale conoscenza.

In particolare si propone non soltanto che a tutti gli adottati riconosciuti alla nascita che abbiano raggiunto l’età di venticinque anni sia incondizionatamente riconosciuto il diritto di accedere a tali informazioni, ivi compresa la conoscenza dell’identità dei propri genitori biologici, senza alcuna ingerenza da parte del Tribunale per i minorenni o di ogni altra autorità, ma altresì che tale accesso sia consentito agli adottati ultra venticinquenni non riconosciuti alla nascita da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata.

Riteniamo che il problema del desiderio o del bisogno dell’adottato di conoscere le proprie origini in termini di vera e propria conoscenza dell’identità dei procreatori biologici, finalizzata a stabilire con essi delle relazioni significative, sia stato sopravvalutato dal legislatore, in perfetta coerenza con il diffuso e radicato sentire di quanti individuano nei legami “di sangue” i mezzi privilegiati attraverso cui un individuo può arrivare a definire la propria identità personale. Il fatto che i tecnici del settore (psicologi, assistenti sociali, giudici..) incontrino dei figli adottivi adolescenti o adulti che manifestino la forte esigenza di sapere chi fossero i loro procreatori, ha indotto il legislatore a ritenere che questo bisogno dovesse necessariamente assurgere al rango di situazione soggettiva meritevole di tutela giuridica.

In realtà, nella maggior parte delle adozioni di minori non riconosciuti alla nascita, l’adottato non verbalizza un desiderio di conoscere l’identità anagrafica e fisica dei suoi procreatori e neppure sente una reale esigenza in tal senso dentro di sé. È quello che emerge dalla storia di Enrico:

Ripenso alla mia esperienza: non sono stato riconosciuto alla nascita e dopo pochi mesi sono stato accolto dalla mia famiglia. Nel corso dell’infanzia i miei genitori mi hanno raccontato più volte la storia del nostro incontro, la loro volontà di amare dei figli, la necessità da parte mia, di mio fratello e di mia sorella (anche loro adottati in tempi e modi diversi) di avere una famiglia. Dall’incontro di queste reciproche volontà d’amore è nata la nostra famiglia. Loro sono i miei genitori, noi i loro figli.
Per questo nel corso della vita non ho mai cercato di scoprire l’identità di chi mi ha messo al mondo. Semplicemente non ne ho avuto l’esigenza perché so che mio padre e mia madre sono coloro che mi hanno adottato. Così quando la gente mi chiede se sono curioso di sapere chi sia mia “madre” e chi mio “padre”, rispondo sempre che la domanda è formulata male poiché conosco benissimo i miei genitori, semmai non ho incontrato quelli che sono stati i generatori biologici della mia esistenza. L’unica curiosità che posso dimostrare è quella di sapere se eventualmente chi mi ha generato fosse affetto da malattie che si possono trasmettere ereditariamente.
Quello che invece mi preoccupa molto di più, è l’atteggiamento di chi ritiene ancora i vincoli di sangue una cosa importante. Sopravvalutare i legami biologici è un luogo comune sorretto dall’ignoranza e dalla scarsa capacità di “leggere” la vita degli uomini. Per la scienza e per gli individui dotati di un discreto senso comune è chiaro ormai da tempo che le influenze date dall’ambiente e dalle relazioni incidono in modo determinante sullo sviluppo e la creazione del carattere di una persona, mentre i caratteri ereditari si limitano praticamente a modellarne l’aspetto fisico.

In altre esperienze traspare la riconoscenza per il dono della vita conseguente alla scelta del non riconoscimento. Piero racconta:

Non sono stato riconosciuto alla nascita e per questo motivo sono stato adottato subito, quando ero ancora un neonato. Per me è stata una fortuna, non ho subito tutti i traumi di chi è adottato più grande.
Io sono quindi cresciuto da sempre con i miei genitori.
Di questo sono grato a chi mi ha generato, sono contento che abbia saputo capire fin dall’inizio che non avrebbe potuto allevarmi e che abbia lasciato che il Tribunale scegliesse per me la famiglia giusta. Forse mi ha risparmiato tanta sofferenza. Ha preferito mettermi al mondo e di questo gliene sono grato. Sarà stata per lei una scelta difficile, ma ha permesso che altri diventassero i miei genitori. Io lo vivo come un atto d’amore, non come un atto di abbandono .

E Claudia aggiunge:

È triste vedere come ancora oggi si basi la propria esistenza sui puri e semplici legami di sangue, unico legame con quel periodo senza ricordi: penso invece serenamente che quel periodo sia una piccola parte della mia storia, da cui ha avuto origine la mia vita, fondamentale perché senza di esso io oggi non sarei qui; ma qualsiasi sia l’inizio di quella storia mi sento una persona completa con piena cognizione di me stessa, in pace con la donna e l’uomo che mi hanno generato e con la speranza che dopo le inevitabili sofferenze del loro percorso legato alla mia nascita, siano stati in grado di ricostruirsi una vita serena come la mia, magari con dei figli, con una famiglia che li ami quanto la mia ama me.
Siamo il frutto delle persone con cui abbiamo vissuto la nostra vita non di quelli che ce l’hanno donata, siamo figli dei genitori che ci amano, ci allevano, educano, siamo genitori dei figli che amiamo, alleviamo, educhiamo, indipendentemente dai legami di sangue!

La tutela della segretezza del parto

Altre volte il desiderio del cuore di indagare il proprio passato è stato superato dalla razionale consapevolezza delle conseguenze a cui tale ricerca porterebbe, come ci racconta Graziella:

La sensazione di imperfezione e manchevolezza, suscitata dall’impossibilità di conoscere le ragioni profonde del mio non riconoscimento, è stata gradatamente superata dalla consapevolezza che il diritto alla segretezza del parto debba necessariamente prevalere sulle altre ragioni del cuore, se si vuole davvero tutelare la vita delle donne e dei nascituri che non verranno riconosciuti. Solo la garanzia di un parto anonimo può indurre una donna a rivolgersi ad una struttura pubblica per portare a termine una gravidanza indesiderata, evitando soluzioni più drammatiche quali l’aborto clandestino, l’abbandono in cassonetto o, addirittura, l’infanticidio.
Sostenuta da questa convinzione, ho superato un po’ per volta il comprensibile dolore causato dall’incompletezza delle informazioni sulle mie origini.
La garanzia alla segretezza del parto e il diritto all’anonimato – previsti dalla normativa italiana – costituiscono una conquista civile non negoziabile che non può essere messa in discussione per soddisfare la curiosità di pochi individui, trattandosi di normativa ispirata all’esigenza di difendere la vita e la salute sia dei nascituri che delle gestanti e di prevenire il rischio di parti clandestini, di aborti e di infanticidi.

Sentiamo Claudia cosa ci dice a proposito:

Da figlia cui è stato concesso di vivere grazie alla legge sulla segretezza del parto, e da donna, penso che sarebbe meglio da parte di noi figli non riconosciuti alla nascita, un impegno e una lotta non per esaudire una possibile e lecita curiosità, ma affinché il diritto di queste donne di essere assistite prima, durante e dopo il parto sia veramente esigibile e perché una legge di cui dovremmo essere fieri continui a rimanere tale, a difesa di tutti quei bambini che grazie ad essa verranno al mondo e che non subiranno una triste sorte quale troppo spesso leggiamo sui giornali, grazie a donne che hanno scelto di metterli al mondo nella sicurezza di un ospedale, e che avranno l’affetto di due genitori e di una famiglia.
Troppo spesso purtroppo queste donne vengono giudicate negativamente dalla società e dai media, che omologano le donne che abbandonano i bambini nei cassonetti, uccidendoli, a quelle che non abbandonano, ma partoriscono in ospedale con un gesto, ribadisco, di grande responsabilità: donano la vita ad un bambino e lo affidano alle istituzioni, consapevoli di non poter svolgere quel ruolo genitoriale di cui i bambini hanno bisogno. Alle spalle di queste storie ci sono percorsi e scelte di vita non facili e facilmente giudicabili da chi nei veri problemi della vita non vuole immergersi.

Auspichiamo l’approvazione del disegno di legge attualmente in discussione in Parlamento, diretto a garantire su tutto il territorio italiano gli interventi socio-assistenziali nei confronti delle gestanti che necessitano di specifici sostegni in ordine al riconoscimento o non riconoscimento del loro nato e al segreto del parto, indipendentemente dalla loro residenza anagrafica (quindi, anche alle donne clandestine!!!)

L’incontro con le proprie origini

Diversa è invece la prospettiva di chi fra noi, essendo stato riconosciuto alla nascita, ha vissuto qualche anno nella famiglia d’origine, per cui conservando qualche ricordo del suo passato ha pensato di rintracciare i generatori biologici. Qualcuno ha ritrovato chi lo aveva messo al mondo andando incontro però a una grandissima delusione. Così è stato, ad esempio, per Enza:

I primi tre anni della mia vita li ho vissuti in una “specie” di famiglia allorché la polizia tolse me ed altri miei fratelli per affidarci ad un istituto. Dopo essere passata in vari istituti, all’età di 10 anni sono stata adottata da una coppia che aveva già due figli adottati.
Ho tanti bei ricordi da quel giorno in avanti perché sono stata accolta dai miei genitori subito, senza che loro mi scegliessero: non sapevano come fossi, a loro non interessava, interessavo io come persona. Un po’ come due genitori che aspettano un figlio e prima che nasca non sanno come sarà, l’unica loro certezza è che lo ameranno per tutta la vita.
Quel giorno è come se fossi nata una seconda volta, ma con la differenza che avevo dei genitori che mi accettavano e che mi avrebbero voluto bene. Con loro ho imparato a vivere, a voler bene, mentre prima non sapevo neanche cosa significassero questi sentimenti.
Arrivata all’età di 18 anni, un po’ per curiosità, un po’ per spirito di contraddizione ho deciso di voler rivedere chi mi aveva messa al mondo. Volevo vedere chi fossero e capire come fossero fatte le persone che mi avevano costretta a passare 7 anni della mia vita in collegio. I miei genitori non me l’hanno impedito e così sono andata alla loro ricerca.
Non l’avessi mai fatto! Ho subito un secondo trauma, forse ancora più grande dell’essere stata abbandonata da piccola. Quando le ho incontrate ho capito che per me non contavano nulla, erano persone che non conoscevo, che non avevano niente in comune con me. Loro non avevano mai gioito e sofferto con me. Non mi avevano vista crescere, non mi erano stati vicini come invece sono stati i miei genitori. L’unica cosa che hanno fatto è stata quella di mettermi al mondo, null’altro: quindi non hanno il diritto di essere chiamati genitori. I genitori sono quelli che ti crescono, ti insegnano a vivere, ti amano.

Ai genitori adottivi spetta il difficile compito di seguire il proprio figlio in questo momento, accompagnandolo nella ricerca e sostenendolo nell’eventuale delusione, senza avere il timore di perderlo.

La ricerca delle origini, infatti, non è sintomatica di una mancanza di affetto per i propri genitori adottivi, ma è spesso legata ad una situazione di conflitto interiore che arreca grande dolore, da cui si crede di poter “fuggire” ricercando.

La domanda vera che soggiace al bisogno di “sapere” sulle origini è: perché mi hanno abbandonato?

Tale domanda, non potendo nella maggior parte dei casi ricevere una risposta definitiva da fuori (cioè da nuove informazioni sulla propria storia), può trovare risposta solo da dentro, eventualmente con l’aiuto di esperti se l’affetto familiare non dovesse bastare.

I pregiudizi sul rapporto adottivo

Come figli adottivi ci preme infine evidenziare che il mondo esterno ha ancora molti pregiudizi sull’autenticità del rapporto adottivo.

A tale proposito assai interessante è quest’ultima testimonianza:

Quando ero bambino non avevo nessuna difficoltà a dire che ero un figlio adottivo. I miei mi avevano insegnato che essere figli adottivi era la stessa cosa che essere figli biologici. Io non sentivo la diversità, anzi per me era una cosa bella. Poi alcuni miei compagni hanno cominciato a prendermi in giro e a dirmi che io ero senza famiglia, che mia mamma non era la mia mamma vera. Non ho avuto il coraggio di parlarne agli insegnanti, anche perché li sentivo distanti, non mi ispiravano confidenza. Da quel momento sono diventato più prudente e non ho più parlato così facilmente della mia adozione.
Adesso il mio lavoro è quello dell’insegnante. Per alcuni anni mi sono occupato di ragazzi disabili. Un giorno un collega mi presenta il caso di un allievo caratteriale dicendomi: “certamente ha tutti questi problemi perché è un figlio adottivo”. “E allora, cosa c’entra?” Gli ho risposto, “anche io sono un figlio adottivo”.

Pensiamo che l’adozione sia una condizione che non vada nascosta e neppure sbandierata. Entrambi gli atteggiamenti indicano infatti un rapporto problematico con essa. Vi è solo un caso in cui è sempre opportuno dichiararsi figli adottivi: quando ci troviamo di fronte a persone che hanno dei pregiudizi nei confronti degli adottati.

Tali pregiudizi sono purtroppo alimentati dai mezzi di informazione: è il caso di numerosi programmi televisivi.

A corto di argomenti strappalacrime, nella necessità di elevare continuamente la soglia dell’impatto emotivo, a garanzia di sempre più golose fette di mercato pubblicitario, la programmazione televisiva è approdata al tema della ricerca delle origini per i figli adottati e del tentativo di ricongiungimento di questi soggetti con i genitori biologici.

Questa forma di comunicazione superficiale e parziale induce a pensare che i figli adottivi siano tutti alla spasmodica ricerca di chi li ha messi al mondo.

Una recente ricerca eseguita dall’Istituto degli Innocenti dimostra invece che è molto esiguo il numero degli adottati (riconosciuti e non) che ha presentato domanda di rintraccio e, tra costoro, ancor più esiguo è il numero di coloro che hanno poi realmente voluto incontrare i procreatori. Peraltro nei pochi casi in cui al racconto della storia segua un reale incontro tra i protagonisti della vicenda, nulla ci viene poi raccontato sull’eventuale successivo rapporto che si viene ad instaurare.

Qualche denuncia, qualche richiamo dell’authority sulla privacy, qualche messaggio di non totale gradimento non hanno finora bloccato completamente questa tendenza, che sta diventando davvero preoccupante.

L’istituto dell’adozione, che sembrava aver segnato, pur non senza contraddizioni e dopo lungaggini burocratiche infinite, un importante passo avanti sulla linea delle garanzie personali e istituzionali dei soggetti coinvolti, è rimasto nel mirino. Si tende infatti non solo a mettere in discussione la radicalità dei legami genitoriali e filiali che esso è in grado di assicurare, ma anche a svalutare la forza e la “naturalità” dei legami affettivi, rispetto al potere, considerato vincolante, del sangue.

Le scienze, come l’antropologia, l’etnologia, la psicologia, dimostrano, invece, che un piccolo (umano o animale che sia) riceve l’imprinting non necessariamente da chi lo ha generato ma dalle figure che sono presenti nel suo mondo affettivo e materiale. Viene allora da chiedersi se, alla base di tanta “cultura” d’intrattenimento, ci siano convinzioni suffragate dalle scienze e da un retto pensare o non siano solamente un modo per fare spettacolo e per ottenere audience.

La funzione dei mezzi di informazione dovrebbe essere da una parte quella di denunciare situazioni che violano le leggi e i diritti dei bambini, dall’altra quella di promuovere una cultura in cui il bambino venga considerato un bene di tutta la società ed in cui tutti gli adulti, che in qualche modo vengono a contatto con lui, diventino corresponsabili del suo armonico sviluppo.

Conclusioni

Delle migliaia di storie di figli adottivi tante sono partite e partono con il barometro che segna tempesta per poi sciogliersi in un luminoso meriggio. Quasi tutte sono passate inavvertite, con il loro carico di gioie, fatiche e verità, spesso eclissate da pochi casi eclatanti di fallimento, distorti e amplificati dai media. Crediamo però che tutte abbiano un portato comune: siano forgiate da un’incredibile volontà d’amore. Un amore che a volte rimane inespresso, a volte scoppia di rabbia, a volte si distende con gioia. È bello pensare che tutte le storie di adozione siano, in fondo, una serie infinita di variazioni su quest’unico tema.

Ringraziamenti

Concedeteci, prima di salutarci, di ringraziare l’Anfaa e, in primis, il suo fondatore Francesco Santanera, per aver lottato in questi 50 anni in difesa di quanti non avevano voce, per migliorare la normativa di riferimento, assicurandone l’esigibilità a chi ne aveva diritto. L’universo adozione è immenso e pertanto siamo consapevoli che il cammino da compiere è ancora lungo. Il nostro entusiasmo ci rende però sempre ottimisti e desiderosi di continuare questa significativa esperienza di volontariato.

Articolo del Gruppo Figli Adottivi Anfaa – Convegno “Gli aspetti fondanti del rapporto adottivo. La voce dei protagonisti: figli e genitori si raccontano”- Roma, Sala della Mercede (Camera dei deputati) Via della Mercede 55 – 12 dicembre 2012